Guardando la locandina del nuovo film di Kim Ki-Duk vengono subito in mente tutti i temi che da qui associamo al cinema orientale, soprattutto quello del regista di Ferro 3, Soffio e Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera: racconti surreali e sospesi di umanità modeste, regia essenziale, grandi silenzi. Il prigioniero coreano, invece, è una spy story claustrofobica e traboccante di dialoghi, racconto di come una costruzione sociale – il governo comunista/capitalista, la famiglia – possa umiliare i desideri fino a renderli irriconoscibili a chi li ha sognati per tutta la vita.
Nam Chul-woo è un pescatore della Corea del Nord che una mattina, quando la sua rete si incastra nel motore della sua barca, si ritrova alla deriva e trasportato dalla corrente verso sud. Qui subirà gli interrogatori della polizia: prima la sua innocenza è scambiata per la strategia di una spia, poi è costretta osservare la ricchezza capitalista del Sud, come se liberarsi dal regime comunista non sia una scelta ma un dovere morale.
Chul-Woo si chiude sempre più in se stesso ma non si arrende: vuole rivedere la sua famiglia, tornare all’appartamento squallido dove si è svegliato tutte le mattine della sua vita. Quando ci riuscirà, subirà le stesse umiliazioni all’inverso e la sua semplicità d’animo ne uscirà talmente mutilata da impedirgli di fare l’amore con la moglie, in una sequenza a specchio straziante. Il prigioniero coreano è cinema delle rovine, il conflitto coreano è solo lo scenario di un’umanità corrotta che è ovunque, anche in occidente, anche qui.