La sensazione è quella di ascoltare un tesoro. O per dirla con Bono: «Una goccia di purezza in un oceano di rumore». È stata la madre di Jeff Buckley, Mary Guibert, a trovare questo tesoro negli archivi della Sony mentre cercava materiale per l’edizione celebrativa dei 20 anni di Grace. È il 1992, Jeff Buckley ha appena firmato un contratto e ha preso in mano il suo destino. Ha esordito cantando alla St. Ann’s Church di Brooklyn il pezzo che suo padre Tim Buckley ha scritto per lui e sua madre, I Never Asked to Be Your Mountain e suona ogni settimana al club Sin-é.
Entra negli studi della Columbia e registra otto cover e due canzoni, una sublime versione acustica di Grace e Dream of You and I. Ci sono diverse considerazioni che si possono fare su questo gioiello, You and I, o forse nessuna. Jeff Buckley era talmente immenso che è inutile commentare la bellezza di quel poco che ci ha lasciato. Il rock degli anni ’90 era ribellione contro gli eccessi e Buckley dimostra quanto era capace di arrivare all’essenza delle canzoni, di qualsiasi canzone. Buckley mette insieme influenze impossibili filtrando attraverso la sua voce Everyday People di Sly & the Family Stone e i Led Zeppelin di Night Flight, e quando entra nel suo territorio emotivo con gli Smiths e Just Like a Woman di Bob Dylan brilla nella sua fragile goccia di purezza.
«Questo è tutto, più o meno. Andiamo avanti», sussurra ancora alla fine di I Know It’s Over degli Smiths. L’inizio di una storia troppo breve.
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