Ascoltare Quiet Signs significa accettare fin da subito una verità incontrovertibile: questo non è un album da mettere su in metro, in palestra, o come sottofondo. Nonostante duri solo ventisette minuti e cinquantuno secondi, tutti poggiati su un equilibrio delicatissimo di chitarre pizzicate, miniature di pianoforte e una voce delicata e bellissima, il terzo album di Jessica Pratt è un mistero scritto in una lingua antica, pieno di vuoti da riempire e segni da decifrare. Niente effetti speciali.
In realtà, tutta la carriera di questa insolita cantautrice è di per sé un segreto da scoprire. Jessica Pratt non sa leggere la musica, è una chitarrista mediocre e senza esperienza sul palcoscenico. Nata nel 1987 a San Francisco, appare sui radar di un certo cantautorato psichedelico americano dopo l’incontro casuale con Tim Presley, che pur di pubblicare il suo primo album – registrato in cameretta quando la cantautrice aveva appena 19 anni – ha fondato un’etichetta, Birth Records. L’esordio omonimo diventa un piccolo caso: la scrittura ermetica della Pratt e la sua voce così espressiva conquistano subito la critica, e nel giro di pochi mesi la cantautrice inizia a girare in tour come apertura dei White Fence. Il secondo album, On Your Love Again, è una conferma e un primo passo verso le atmosfere inquiete e misteriose della sua ultima uscita.
Non bisogna però fare l’errore di considerare Quiet Signs – e la scrittura di Jessica Pratt nel suo complesso – come l’ennesimo album di quel folk triste e intimista che tanto andava di moda qualche anno fa. Jessica Pratt ha una voce enigmatica, passeggia sulle parole senza preoccuparsi di pronunciarle correttamente, attraversa accenti e sfumature diverse strofa dopo strofa, dimentica di scrivere i ritornelli. Sembra che le melodie arrivino nelle canzoni per puro caso, come un inciampo, una dimenticanza, una magia.
Questa non è musica di protesta, e nemmeno canzone d’amore confidenziale alla Kings of Convenience: Jessica Pratt sembra più la versione introversa e minimale di Julee Cruise, che con le sue acrobazie vocali ha accompagnato alcuni tra i momenti più memorabili di Twin Peaks e Fuoco cammina con me. Persino la foto sulla copertina dell’album sembra scattata in una delle stanze del Great Northern Hotel.
Quiet Signs, dicevamo, è un disco che si può ascoltare solo in uno stato di totale abbandono. Se quanto abbiamo detto fino a questo punto non dovesse essere abbastanza per convincervi ad ascoltarlo, sappiate anche che contiene almeno due canzoni grandiose (Poly Blue e This Time Around) e un’atmosfera fatata che non vi abbandonerà facilmente. Mollate tutto e dedicategli questi ventisette minuti e cinquantuno secondi, chissà dove vi ritroverete.