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‘Jungle Cruise’: fin che la barca (con The Rock ed Emily Blunt) va…

Dopo la saga di 'Pirati dei Caraibi', la Casa di Topolino prova a bissare il successo con un altro film basato su un'attrazione del parco di divertimenti
2.5 / 5

Date la colpa a Johnny Depp. Sentitevi liberi di farlo per diverse cose, se volete. Ma, in particolare, pensate a quando nel 2003 Depp si è messo in testa un foulard, ha tirato fuori la sua versione barcollante e sbiascicata di Keith Richards e ha trasformato quello che sembrava un ultimo disperato tentativo della Disney in una macchina da soldi. Nessuno si aspettava che un film ispirato all’attrazione di un parco divertimenti e basato su storie di mare secolari potesse dare vita a un franchise così popolare; nessuno si aspettava che un film sui pirati del XVIII secolo avrebbe conquistato tutti nel XXI secolo.

Depp è riuscito a trasformare la saga dei Pirati dei Caraibi in un successo, anche quando gli incassi hanno iniziato a diminuire. Ancora più importante, ha contribuito a dimostrare un teorema della Casa di Topolino: quando si tratta di concedere licenze, sfruttare brand e fare reboot, perché fermarsi ai personaggi più noti? Trova l’attore giusto e puoi vendere le attrazioni più amate anche al cinema. Se riesci a coinvolgere anche un buon regista e a mantenere il ritmo frenetico, tanto meglio. I film riporteranno i clienti al parco e il cerchio della vita, pardon, del commercio, continua. Che ormai fosse una tendenza era chiaro, ma quale sarebbe stato il prossimo “titolo” e quando sarebbe arrivato?

La tregua è durata più a lungo di quanto pensassimo, e forse non è giusto incolpare il fantasma di Jack Sparrow e dei suoi pirati per Jungle Cruise. Ma, caro Walt, l’ombra di quella saga incombe su questo nuovo tentativo di vendere un giro in barca vintage e colonialista nel regno magico come la prossima grande infinita serie di film dell’estate.

Ad essere onesti, lo stesso vale per Indiana Jones, La regina d’Africa, lo steampunk, Werner Herzog, Edgar Rice Burroughs, Rudyard Kipling, Jules Verne, l’intera filmografia precedente di The Rock, quel libro su Ponce de Leon che vi siete dimenticati di restituire in biblioteca in quarta elementare e ogni avventura maschile mai scritta. L’imbroglione spiritoso e spericolato? L’eroina ipercapace che lotta contro il sessismo? I cattivi mistici e soprannaturali e la loro controparte umana e imperialista? Il nuovo che prende il posto di quello che è stato è spesso in forma digitale e ogni tanto funziona. Sono cambiati solo i cappelli, la location dell’attrazione nel parco e le dimensioni dei bicipiti.

Innanzitutto c’è un adorabile skipper furfante: si chiama Frank Wolff, ma sentitevi liberi di chiamarlo Dwayne Johnson. Un ottimo esempio di ciò che fa una star del cinema quando la ingaggi: porta il suo personaggio sullo schermo e lo modella per adattarlo al contenitore senza cambiare la ricetta essenziale. È l’unica grande differenza tra Jungle Cruise e le avventure da parco dei divertimenti precedenti: Depp ha permeato tutto con un bizzarro senso di imprevedibilità mentre Johnson dà sempre quella sensazione rassicurante che stiamo guardando un film di Dwayne Johnson. Tranne questa volta: è il 1916, siamo nel profondo delle foreste pluviali brasiliane e The Rock sorride invece di essere accigliato. Wolff è una guida turistica che gestisce la sua fidata barca su e giù per l’Amazzonia per turisti creduloni, che – sì – si distingue per le battute ispiratrici del capitano. Forse avete dimenticato per un nanosecondo che il film è basato sulla giostra caratterizzata da commenti e giochi di parole che vanno dal brutto al molto brutto al “fatelo smettere, fatelo smettere!”. Chiunque sia stato a Disneyland negli ultimi 50 anni riconoscerà le battute che Johnson fa ai suoi ostaggi (scusate, “clienti”). La meta-gag è che anche la gente nel 1916 pensava fossero orribili.

Nel frattempo, nella vecchia Inghilterra, un giovane di nome MacGregor Houghton (Jack Whitehall) sta facendo un appello a una vecchia società storica per avere accesso a una punta di freccia trovata di recente in Amazzonia. Questo manufatto, che sta per essere nascosto nei loro archivi, è presumibilmente la chiave per sbloccare “le lacrime della luna” – fiori luminosi che sbocciano solo sul mistico Albero della Vita, e ossessione del conquistatore spagnolo Don Lope de Aguirre (Edgar Ramirez). Houghton però non è quello da tenere d’occhio: meglio concentrarsi sulla sorella di MacGregor, Lily (Emily Blunt), la testarda avventuriera della famiglia. Vuole di dimostrare che le voci sulle proprietà curative magiche di questi fiori sono vere e che possono curare tutti i mali. Anche un altro personaggio, il principe tedesco Joachim (Jesse Plemons), vorrebbe la punta della freccia. E poi naturalmente c’è una guerra mondiale in corso: avere accesso ai doni dell’albero potrebbe dare un vantaggio al suo Paese.

C’è una scena entusiasmante che coinvolge Blunt e Plemons in competizione per tirare fuori la punta della freccia dalla cassa: un miscuglio di finzione e movimento che il regista Jaume Collet-Serra gestisce bene; anche se non sapevate che ha impiegato del tempo per mettere alla prova Liam Neeson con le sue mosse da nonno-action, capirete perché ha ottenuto l’ingaggio – prima che tutti si incontrino in Sud America, e la storia prenda forma nella prima avventura di Jungle Cruise. Si scopre che la performance comica di Blunt si abbina bene a quella di Johnson. In particolare, l’attrice si diverte a interpretare una sorta di Hepburn per il Bogart gonfiato di lui. (Quando la guardate entrare in azione e capite come il film interpreta bene la sua vulnerabilità e il suo coraggio, ricorderete che questo è il regista che ci ha anche regalato la surfista eroina in pericolo di Blake Lively in Paradise Beach – Dentro l’incubo). Blunt ha già dimostrato di essere una grande interprete fisica oltre che espressiva, abbastanza versatile da andare in profondità o rimanere spensierata, e anche quando si appoggia pesantemente alla giusta indignazione, ha una verve unica che si ripercuote anche sul suo partner sullo schermo. Lei lo chiama “Skippy”. Lui la chiama “Pantaloni” (perché è una signora e indossa i pantaloni). Insieme riescono quasi a convincerci che questa è una crociera che vale la pena fare. Quasi.

A parte questo, be’… il cattivo sassone di Plemons può adorare il Kaiser invece del Fürher, ma è un simil-nazista con un altro nome, e la vertigine che dà il villain mentre si arricchia i baffi si scioglie rapidamente. Paul Giamatti fa una comparsata con un accento texano, un dente d’oro e una vibe che urla: “Anche la mia casa estiva ha bisogno di una ristrutturazione”. L’interesse di un personaggio per stili di vita alternativi allora vietati raddoppia sia come rappresentazione simpatica che come battuta finale guidata dal panico gay, lasciandoci con il dilemma su ciò che è venuto prima nelle riscritture del copione. E l’eredità di un allegro esotismo che si scontra con gli stereotipi di Tarzan viene affrontata in un modo che suggerisce come una casella sia stata sommariamente spuntata da un elenco di reclami precedenti.

Ci sono alcuni elementi in Jungle Cruise che potrebbero essere etichettati come spoiler, ma il fatto che il film finisca preparando il sequel non è uno di questi. Alla Disney piacerebbe molto replicare, e ci sono momenti – in particolare quando Aguirre e alcuni compagni conquistadores ritornano post mortem – che sembrano spingerci a ricordare quanto amavamo quei primi film dei Pirati: “Allora perché non provare anche questo?”. Il giro che ti stanno davvero chiedendo di fare però non è una ripresa della loro escursione a monte del fiume. È qualcosa di più vicino a un’attrazione di un parco divertimenti chiamata Generic Blockbuster Cruise, dove scivoli lentamente davanti a un gruppo di allestimenti prefabbricati e tutto si muove inesorabilmente in avanti su un binario, mentre uno skipper fa le stesse battute banali. È un modo decente per ammazzare il tempo una volta, se dura poco. E non sarai particolarmente impaziente di fare un altro giro.

Da Rolling Stone USA

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