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‘La casa di Jack’ è un inutile metaforone narcisista

L'ultimo film di Lars Von Trier è un fake-thriller aggrappato al suo "messaggio": uno stucchevole parallelo tra la vita di un serial killer e quella del regista di film
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Se il precedente film di Lars Von Trier, l’estenuante ed esacerbante Nymphomaniac (mappazzone in due parti del 2013), nascondeva un’anima, se non apertamente postmoderna, quanto meno critica e dialettica, nella sua ostinata demolizione delle convenzioni e degli statuti di un genere – il porno – altrove pienamente codificato e ingabbiato nel presupposto che non possa esistere un porno d’autore (tema, tra l’altro, già affrontato in maniera ben più egregia, nel 1970, da Terry Southern nel suo Blue Movie), The House That Jack Built, in Italia tradotto con La Casa di Jack, nuovo lavoro del regista danese dopo cinque anni di assenza e vari ostracismi in giro per il mondo, è un film per i tre quarti talmente classico nelle sue coordinate slasher da risultare quasi demodé.

Ecco la trama in breve: Jack, nome volontariamente comune per ampliarne l’empatia col pubblico come un tempo fecero gli Smiths in musica (ma molto peggio), si scopre un assassino seriale cattivo cattivo e per questo finisce (letteralmente) all’Inferno.

Nonostante sia inframmezzato da divagazioni ironico-filosofiche vicine alla videoarte, tra un “tutorial” per la costruzione delle cattedrali e un altro sulla fermentazione delle uve per il vino dolce, in molte scene The House That Jack Built ricorda piuttosto Maniac di William Lustig (film del 1980, con un fantastico Joe Spinell nel ruolo di un serial-killer venti volte più credibile di Matt Dillon che, alla fine della fiera, ammettiamolo, sembra soltanto una versione della mutua di Bruce Campbell ne La Casa) che un qualsiasi horror d’autore da Shining di Stanley Kubrick a Lasciami entrare di Thomas Alfredson. Se Von Trier arriva a buttare nel mezzo pure Bob Dylan, la Divina Commedia e la Shoah, giusto per volare bassi e, c’è da credere, per rammentare allo spettatore di essere stato a suo tempo anche un regista di spessore, è molto più divertente provare a scovare quanti più episodi di “nera” sgraffignati dalle vite di serial-killer realmente esistiti (da Jeffrey Dahmer a Dannis Rader, passando per Jerry Brudos) che soffermarsi a filosofeggiare, magari alla amatriciana, sui reconditi motivi che abbiano spinto Lars a un finale così kitsch e fuori portata. Nonostante, altrove, ne troverete certo a bizzeffe – e se per Nymphomaniac si è persino letto che “il sesso non c’entra nulla”, qui qualcuno magari proverà a dirvi che in realtà la pellicola parla, che so, di numismatica ma siamo troppo scemi per capirlo.

Nel film non c’è neanche la volontà di lasciarsi totalmente andare come azione manierista, il che presupporrebbe una consapevolezza più o meno esibita del proprio collocarsi fuori dal proprio tempo e/o fuori dal proprio genere d’appartenenza; tutt’altro, The House That Jack Built finge di essere un riuscito mashup di generi, e con questa convinzione prosegue un indomito tragitto personale ora fitto di speculazioni romanzesche degne di un b-movie alla Pieces ora pregno di voli pindarici decisamente senza né arte né parte. Una sorta di distonia percettiva che funziona solo nella testa del sessantaduenne regista, che ignora (o fa bene finta) in larga parte le modifiche che il tempo e altre firme hanno apportato sul modo di elaborare determinati racconti da parte dello spettatore.

Per immergersi nei cinque capitoli più epilogo di questo Rise and Fall of a Common Serial Killer, dunque, l’unica è prestarsi al gioco, le cui regole sono state fissate negli anni tra il 1970 e il 1980 a Washington. Ma anche eventuali raffronti con l’età dell’oro per tutti gli amanti di omicidi seriali, come nel caso di Ted Bundy (35 omicidi negli Stati Uniti tra il 1974 e il 1978), reggono fino a un certo punto: nel film di Lars Von Trier l’elemento di rottura (non fatemi scrivere di cosa…) dato dello snervante cipiglio d’ingolfare la trama di supposti sottotesti psicanalitici (o giù di lì) è sufficiente, da solo, a collocarne lo statuto in un’area differente da quella del equilibrio, figuriamoci della realisticità. E non basterà di certo inserirli in un contesto oramai storicizzato per dargli una o l’altra aurea. The House That Jack Built non sembra comunque volere cedere a queste opzioni: tutto è esibito sulla superficie della tela, sulla quale si compone un racconto rigidamente perimetrato dalla voce narrante del recentemente scomparso Bruno Ganz (nei panni di un Virgilio che sembra Churchill, ma tanto a Dillon basta un accappatoio per essere Dante quindi capite da soli che vale tutto), con poco senso logico e quasi zero trama, in cui il profilo biografico o formativo di Jack è trattato a grana grossa (basta sul serio essere solo un ingegnere con l’ambizione di essere un architetto per riempire una cella frigorifera di cadaveri?) e quello dei subalterni anche peggio. Uma Thurman, un Oscar e due Golden Globe, archiviata in dieci minuti, un colpo di cric e quattro battute sceme è, cinematograficamente parlando, più sacrilego di far manipolare al protagonista il cadavere di un bambino solo per la spavalderia di giocare col fuoco

Quello che emerge da una così radicale rimozione è un finto-thriller, disperatamente ancorato alla propria supposta sfera aulica e al proprio lato drammatico, che nella propria fabula trascura non solo importanti caratterizzazioni ed eventuali moventi di tanta cattiveria, ma soprattutto tutti gli aggiornamenti del genere nell’epoca di Netflix, dei true crime e delle analisi divenute già casi di approfondimento di massa (prendete, per dire, quel piccolo capolavoro di Manhunt: Unabomber su Discovery Channel). Elementi di cui il regista sembra non tenere minimamente conto in un’epoca in cui, invece, diciamo anche purtroppo, non basta più essere “solo” Lars Von Trier per risultare competitivi. Al contrario, né carne né pesce, in The House That Jack Built manca in toto un’analisi forte, ben strutturata, fatta con le mani e soprattutto con il cervello dei nomi coinvolti.

Un errore grossolano in cui l’oggetto (se esiste) del racconto serve soltanto a sottolineare la solenne autoreferenzialità del regista che, in uno dei tanti pot-pourri visuali, finisce per ributtare nel mezzo anche una scena tratta da Nymphomaniac; ovvero un sé stesso oramai sempre più ingombrante per essere accolto e compreso, e perciò invariabilmente scioccante, enigmatico e soprattutto parziale. Insomma: The House That Jack Built sarebbe stato un film molto interessante se Von Trier non avesse abbandonato la postazione d’osservazione fornita da Jack ma l’avesse fatta espandere analizzandola come il cineasta che ha saputo essere (tanto in Idioti quanto in Dancer In The Dark, per intenderci), invece di volere (come in gran parte del suo passato recente, da cui si porta dietro la fotografia claustrofobica di Manuel Alberto Claro) suppurare il concept di fondo fino al grottesco per poi tentare un salvataggio in extremis con la carta della cultura da piccolo liceale. Vanificando in questo un ottimo potenziale di fondo e momenti riusciti come il “Secondo Incidente” o forti come la scena del picnic in un esistenzialismo da discount: “L’anima appartiene al Paradiso e il corpo all’Inferno” lo dicevano pure i metallari Tiamat venti anni fa e senza scomodare Dante.

In questo modo, in The House That Jack Built resta solo una muta di pelle vuotata del genio che fu fino a quindici anni fa e buona al massimo per essere esibita come reliquia. Purtroppo Von Trier, pur essendo stato un autore dalla visione solida e dalle ambizioni forti, per questo film non sembra sapere bene che pesci prendere, scegliendo una comoda via di mezzo che però finisce per dare una fregatura sia a chi si aspettava un bel film d’autore che a quanti avrebbero voluto semplicemente un buon horror movie.

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