Benedikt Erlingsson è un pazzo dal Dna vichingo che sa come fare film. Prima butta lì come nulla fosse Of Horses and Men, un quasi-western nordico, senza cattivi e dove i cavalli sono gli eroi della situazione, con i ciuffi al vento, gli occhi teneri ma pure le mostruose erezioni. La migliore commedia nera equina made in terra dei ghiacci, probabilmente – anzi sicuramente – anche l’unica. Parliamo di roba molto europea, scandinava nello specifico, eccentrica, completamente fuori dagli schemi, che gioca a sfidare e intrecciare deliziosamente le convenzioni narrative con l’umorismo secco e l’uso pittorico dei paesaggi vulcanici islandesi.
Erlingsson è imbattibile nel catturare la bellezza quieta e luminosa del suo Paese. E se non bastava quella stravagante ode al cavallo a dimostrarlo, il regista rilancia con il suo secondo film, La donna elettrica, dove la storia è più semplice e lineare ma il godimento lo stesso.
La premessa è formidabile: Halla è una single di mezz’età che dirige un coro a Reykjavik, sta per adottare una bambina ucraina ma, soprattutto, è La donna elettrica del titolo, l’ecoterrorista fai-da-te e senza identità che è sulla bocca di tutti e che, all’occorrenza con l’aiuto di una maschera da Nelson Mandela, è determinatissima a sabotare le industrie pesanti decise a distruggere la sua bella Islanda, abbattendo un pilone dell’elettricità alla volta. Avete presente Frances McDormand in Tre Manifesti? Ecco, il temperamento è identico. E pure il caratteraccio.
Quando la incontriamo per la prima volta in una scena d’apertura “col botto”, Halla (la strepitosa Halldora Geirharosdottir, famosissima in patria), novella Robin Hood in gonnella, è intenta a usare abilmente arco e frecce per far saltare una linea elettrica in campagna, causando un blackout alla fabbrica di alluminio vicina. Poi l’inseguimento da parte della polizia e il rientro alla sua vita di facciata, mentre pianifica la prossima mossa. Halla non molla niente. Ed è impossibile non abbracciare la sua battaglia e respirare il suo legame con la natura.
La donna elettrica parte su basi leggere e giocose ma gradualmente usa l’umorismo e l’assurdo con intelligenza e grazia per affrontare tematiche globali e sociali urgentissime, trasformandosi in qualcosa di più emozionante e commovente: una fiaba moderna, femminista ed ecosostenibile, sulle implicazioni che sorgono quando si prova a combattere il mostro neoliberista e il suo sistema. E sulle complicazioni se chi decide di farlo è una donna, che per giunta sta per diventare mamma. Sotto la superficie ludica qua e là spuntano verità scomode su cittadinanza, famiglia e privilegi. L’Islanda ha proposto il lungometraggio come suo candidato all’Oscar per il miglior film straniero. E Jodie Foster in persona ha deciso che ne farà un remake spostando l’azione nell’ovest degli Stati Uniti.
Funzionerà? L’immensità degli altipiani rurali dell’Islanda fissati in monumentali composizioni widescreen dal direttore della fotografia Bergsteinn Bjorgulfsson è parte integrante della miscela audace e bizzarra, del fascino irresistibile del film, così come il trio di musicisti che suona, più che in sottofondo, davvero sullo sfondo, e le tre cantanti ucraine che appaiono in momenti chiave sullo schermo a commentare in melodia, simpatizzare, sempre rispettando personaggi e pubblico. Tutto troppo meravigliosamente e spassosamente islandese per diventare americano.