Non è carino augurare a un artista di soffrire come un cane per sfornare un capolavoro lancinante al pari di Semper Biot (2009), l’esordio da solista di Edda, nonché il suo ritorno sulla scena musicale dopo più di un decennio di solitaria e anonima latitanza; non è carino e fortunatamente non è nemmeno necessario. A distanza di altri otto anni, con tre dischi all’attivo, Edda ha deciso di concedersi una botta di speranza col suo nuovo lavoro, a partire dal titolo: Graziosa utopia, quasi un’ipotesi di ottimismo controllato. L’effetto immediato è un po’ spiazzante, per quell’implicita affezione che sviluppiamo verso le sofferenze altrui in grado di parlare alla nostra, e può capitare di rimpiangere l’intensità dolentissima del primo Edda, ma a un secondo ascolto l’album sa regalarci più di quanto potremmo immaginare, perché è un disco bellissimo. Non lo definirei un “disco maturo” – un concetto che odio – visto che spesso la maturità tende ad autolegittimarsi e ad assottigliare il conflitto, a smussarlo, mentre Edda è in grado di amplificarlo e restituirlo in una forma ancora più viva. Allora non c’è proprio niente da rimpiangere, anzi, c’è la solo felicità di scoprire che si può invecchiare e non concedere nulla a una maturità canonica. La poetica di masochismo amoroso ed esistenziale rimane inalterata, a volte persino con manierismi al limite dell’auto-calco (i vari “picchiami”, “spaccami”, “benedicimi” o “mi masturbi l’anima”), ma musicalmente la scarnificazione dei primi tempi si gonfia verso derive iper-melodiche, tanto da ritrovare Mina nel pezzo di apertura Spaziale (e in sottofondo un’eco dei Radiohead di Creep) e in Un pensiero d’amore, uno dei brani più complessi dell’album, dove – nella seconda parte – Mina deve vedersela con inserti dance alla Subsonica e addirittura un ritmo alla Moloko (per intenderci quelli di Forever More). Divertente il cazzeggio ironico di Arrivederci Roma con Edda che canta: “A Roma nessuno sa chi sono / Aò però beati loro”.
La Graziosa Utopia di Edda
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4 / 5