La cosa più vicina al folk successa a Kylie prima d’ora è stata il duetto di Where the Wild Roses Grow con Nick Cave nella raccolta di canzoni — dedicata ad ammazzamenti – genere tradizionale britannico –, Murder Ballads del cantautore. Nel video interpretava una vittima fresca, ancora canterina, disposta sulla riva di un fiume — strizzatina d’occhio all’Ofelia del dipinto preraffaellita – dall’aguzzino Cave che, accarezzandola, non trattiene una certa tenerezza malata.
Immagine forte per i fan della stella australiana del pop, fino ad allora perfettina e levigata nel suono quanto nell’immagine. Caratteristiche che metterà a frutto, stilizzandole, nel primo mega-successo internazionale: Can’t Get You Out of My Head dove è un cyborg che guida e balla sullo sfondo di una Shanghai o un’Abu Dhabi inventate al PC su una base che aggiornava l’euro-dance di una decina di anni prima. Un trionfo dell’automatico e del plasticoso quanto mai lontano da questa Minogue neo-country, presente un po’ a sorpresa nel nuovo disco, Golden.
Vero che non si può cucinare sempre la stessa zuppa, ma la prossimità all’analoga svolta di Justin Timberlake con il suo Man of the Woods fa venire il dubbio: il pop abbraccia una forma di “gentismo” nostalgico per evocare tempi più semplici? Forse si reitera il concetto per cui maturità artistica e tradizionalismo non possono che andare a braccetto?
L’escamotage, a dirla tutta, riesce a tratti: i suoni di Nashville e il pop elettronico divertono e le tracce scorrono bene (per quanto l’ibrido funzioni sicuramente meglio per le più allenate orecchie nord-americane), ma emerge, ogni tanto, qualcosa di ripetitivo e appiccicaticcio, soprattutto in qualche ritornello e-adesso-tutti-insieme. Quindi, niente abbuffate: questo è un disco che deve essere sorseggiato con calma.