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L’album perduto di Neil Young ‘Homegrown’ parla al nostro presente

Ci sentiamo particolarmente vulnerabili e perciò comprendiamo il senso di confusione e isolamento trasmesso dal disco che il rocker sta per pubblicare dopo 45 anni
4.5 / 5

Una sera del 1975, Neil Young chiamò a raccolta un po’ di amici al Chateau Marmont di Los Angeles per far loro ascoltare nuova musica. Aveva registrato due dischi e non sapeva quale pubblicare. Uno era Tonight’s the Night, una meditazione tosta e impregnata di tequila sulla morte e sulla fine degli anni ’60. L’altro era Homegrown e definirlo era più difficile. In apparenza era un disco country-rock, lo stile che aveva reso famoso Young, ma la veste musicale calda nascondeva canzoni personali, talmente personali da far sorgere dubbi sull’opportunità di pubblicarle. «Sarebbe imbarazzante», diceva Neil Young.

Ci sono voluti 45 anni, ma finalmente Young è pronto a farci ascoltare quei pezzi. Dei dodici che compongono l’album, sette non sono mai usciti ufficialmente, il che fa di Homegrown la pubblicazione più rivelatrice fra quelle che Neil Young ha tratto di recente dagli archivi. Il musicista ha scritto il disco mentre si separava dall’attrice Carrie Snodgress, madre del suo primo figlio Zeke, riversando il proprio dolore in canzoni che trasmettevano un senso di vulnerabilità e incertezza.

Musicalmente parlando, l’album segna un ritorno al country-rock del suo grande successo Harvest che a sua volta era stato in parte ispirato da Snodgress, in tempi più felici per la coppia. Nel frattempo, l’umore di Young era cambiato radicalmente e di conseguenza Homegrown è conflittuale e decisamente crudo laddove il soft rock di Harvest suonava in modo confortante.

“Non chiederò scusa”, annuncia Young nella prima canzone, Separate Ways, mentre le parole si fondono con la pedal steel di Ben Keith. In Mexico piange la sua perdita su poche note di pianoforte: “Il sentimento è svanito, perché è tanto difficile tenersi stretto un amore?”. La lenta Try è lievemente più ottimistica, con Young che canta in modo giocoso: “Tenterei la fortuna, ma cazzo, Mary, non so ballare”, una citazione di una delle battute preferite della madre di Snodgress. E poi c’è Vacancy, pezzo rock con Stan Szelest al Wurlitzer e la frase: “Ti guardo negli occhi e non capisco che cosa nascondono” che sembra rivolta a una ex che per l’uomo è diventata una specie di fantasma.

Il senso di perdita torna anche nei pezzi più disimpegnati del disco. Nell’acustica Kansas sembra che Young immagini un nuovo amore come fuga dalla realtà: “Possiamo scivolare nell’aria / lontano dalle lacrime che hai pianto”. La solitudine dà origine anche pezzi divertenti e non rifiniti come lo strano blues We Don’t Smoke It No More e la title track, quasi un inno allo stonarsi. Non sono all’altezza dei classici di Young, ma è bello sentirlo alle prese con pezzi più leggeri mentre si perde in una jam con gli amici, tra cui Robbie Roberson, un Levon Helm particolarmente funk ed Emmylou Harris, che canta magnificamente in Try.

Se fosse stato pubblicato nel 1975, Homegrown avrebbe evocato gli ideali hippie. Oggi sembra più deprimente. Eppure è difficile pensare a un momento migliore di questo per mettersi lì ad ascoltare storie di angoscia, confusione e isolamento. Quest’album è la dimostrazione che anche dalle circostanze più difficili nascono cose belle e durature.

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