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Lana Del Rey ha pubblicato il miglior album della sua carriera. La recensione di ‘Norman Fucking Rockwell’

Un disco che era già iconico ancora prima d'uscire che, con un sound da thriller erotico, racconta i sogni più oscuri dell'America, ritratti dalla cantante come fosse la versione gangster di Nancy Sinatra
4.5 / 5

Lana Del Rey, in fondo, è sempre stata una classicista del pop – e finalmente ha inciso il suo primo classico. L’atteso Norman Fucking Rockwell è ancora più magniloquente di quanto tutti abbiano desiderato. Lana ha trasformato il suo quinto e miglior album in un tour nei sogni più sordidi degli americani, un’indagine in borghese tra le fantasie più perverse della nostra nazione. Non esistono altri autori capaci di costruire fantasie romantiche così elaborate per il solo gusto di farle a pezzi. Lana sussurra versi come “If I wasn’t so fucked up / I’d fuck you all the time”, oppure “I Heard the war is over if you choose”, o ancora “Your poetry’s bad and you blame the news”. Il fatto che siano incredibilmente divertenti non le rende meno emozionanti.

Le canzoni di Norman Fucking Rockwell evocano la visione di Sharon Tate che Margot Robbie ha portato in C’era una volta… a Hollywood – una piccola celebrità che chiede il trattamento VIP al Bruin Westwood Theater di L.A. perché è una delle protagoniste del film che proiettano. Potrebbe essere un momento umiliante, ma l’attrice è così ingenua nelle sue fantasie di successo che nessuno potrà costringerla a pagare i 75 centesimi del biglietto. In alcune di queste canzoni, Lana fa pensare a cosa sarebbe successo se quella Sharon Tate fosse riuscita a imporsi tra i cantautori Malibu degli anni settanta.

Norman Fucking Rockwell era iconico già prima dell’uscita, soprattutto grazie a una trafila di singoli brillanti pubblicati da Lana negli ultimi anni, quasi il suo diario in musica, e a quel titolo straordinario. Venice Bitch è un vortice psichedelico di chitarre fumose, archi sensuali e sintetizzatori G-funk, mentre Lana mostra i denti e si dichiara “fresh out of fucks forever”. Mariners Apartment Comples è una ballata da cuori spezzati, dove canta “Jesus can’t a girl just do the best she can?”. La settimana scorsa, la doppia uscita Fuck It I Love You e The Greatest ha alzato le aspettative a livelli febbrili.

L’album le sorpassa tutte. L’apertura è della title track, la cosa più vicina a un brano romantico che Lana poteva scrivere: “Goddamn, man-child / You fucked me so good that I almost said ‘I love you’”. (Ricorda il momento inquietante di Honeymoon in cui chiede al suo amante di baciarla durante il sesso, come se fosse qualche tipo di perversione esoterica, e nelle canzoni di Lana Del Rey lo è). E se quest’uomo la deluderà in ogni modo possibile? Lana solleva le spalle: “You’re just a man / It’s just what you do / Your head in your hands as you color me blue”.

Lana, adesso, è una Nancy Sinatra gangster, e Jack Antonoff è il suo Lee Hazelwood occasionale. Ma nessuno può dubitare che quest’album sia opera della popstar. The Bartender, How to Disappear, Love Song, queste sono tutte ballate che dovrebbero essere suonate come sottofondo di un thriller erotico anni ’90, o di una cassetta sepolta nell’attico di qualcuno che si è dimenticato di pagare il noleggio a Blockbuster e poi è morto.

Ultraviolence (2014) era il suo album migliore (e di parecchio) – l’unico, fino a questo momento, in cui la sua scrittura andava di pari passo con il suo stile. Ma qui, con l’aiuto di Antonoff, Lana si supera ancora. Anche lui sta vivendo un’estate interessante: una settimana fa è uscito Lover di Taylor Swift, un altro album per cui ha scritto un eccellente pezzo “alla Lana Del Ray”, Miss Americana and the Heartbreak Prince. In questo album, però, Antonoff si adatta a un altro mondo musicale, e le impronte del suo passaggio sono quasi invisibili. Lana, da parte sua, resuscita le sue fantasie soft rock alla Laurel Canyon, ruba titoli a Neil Young (Cinnamon Girl) e Joni Mitchell (California), va a feste dove la gente sorseggia rum ascoltando Crosby, Stills e Nash.

In uno dei brani più interessanti dell’album, The Next Best American Records, Lana balla ascoltando l’album più californiano degli Zeppelin, Houses of the Holy: “My baby used to dance underneath the architecture / He was seventies in spirit, nineties in his frame of mind”. Lana canta di ballare ascoltando gli Eagles a Malibu – ha sempre avuto una strana fissa per gli Eagles, già nel 2014, con la ballata Fucked My Way Up To The Top, dove trasformava Hotel California nella storia della sconfitta del West.

Con il titolo dell’album, Lana evoca il pittore famoso per raccontare la normale vita borghese degli americani. Rockwell, una volta, ha detto: “I ragazzini che cercano di acchiappare le zanzare; le bambine che giocano sui gradini dell’ingresso, anziani che arrancano verso casa al tramonto, ombrelli tra le mani – tutte queste cose mi emozionano molto”.

Norman Fucking Rockwell suona come se tutte le canzoni fossero state scritte negli anni settanta, al tramonto, quando tutte le canzoni in radio parlavano di Los Angeles a prescindere dalla provenienza del cantante, solo perché era universalmente riconosciuto che Los Angeles fosse il posto dove il sogno Americano andava a morire. Tutti sapevano che la sigla L.A. non era il nome di una città, ma di un labirinto di hit su piccoli amori di provincia fuggiti in città e avvelenati fino a non poter più tornare indietro. In Norman Fucking Rockwell, questa è la città di cui parla Lana Del Ray. Il disco si conclude con Hope Is A Dangerous Thing For a Woman Like Me To Have… But I Have It, una sorta di epitaffio di tutto il paese, i suoi sogni e i suoi sognatori. Ma come canta in The Greatest, questo è il momento dell’arte. E Lana si sta divertendo un mondo.

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