Lo scorso autunno, il remake HBO di Scene di un matrimonio faceva iniziare i suoi episodi con uno strano stratagemma strutturale: guardavamo gli attori Jessica Chastain e Oscar Isaac, nella parte di sé stessi, mentre si muovevano sul set della serie ed “entravano” nei loro personaggi per poi cominciare la scena vera e propria. Era una scelta creativa che poteva facilmente distrarre l’attenzione e che non c’entrava nulla con quello che la serie voleva raccontare; sembrava piazzata lì solo per ricordare al pubblico che stava guardando due attori di primo livello mentre perfezionavano il loro mestiere.
Ora arriva Landscapers – Un crimine quasi perfetto, altra miniserie HBO costruita attorno a due incredibili performance e alla storia di un matrimonio che poggia su fondamenta decisamente traballanti. Anche qui vediamo due star, Olivia Colman e David Thewlis, mentre si aggirano tra set e teatri di posa. E anche qui il nostro sguardo è costretto a fare i conti con la natura artificiale di qualsiasi forma di intrattenimento filmico, persino quando si tratta di un true crime come in questo caso. Ma qui lo sfondamento della quarta parete diventa uno snodo cruciale della narrazione – e anche l’elemento più interessante di un progetto con cui è difficile entrare in connessione, nonostante gli eccezionali talenti messi in campo.
Colman e Thewlis interpretano Susan e Christopher Edwards, due coniugi inglesi che vivono una vita tranquilla e monotona fino al giorno del 1998 in cui lei uccide a colpi di pistola i suoi genitori, Patricia e William Wycherley, e lui la aiuta a seppellire i corpi nel giardino della loro casa. Per anni, la coppia finse che i Wycherleys fossero ancora vivi per poter intascare la loro pensione. La miniserie – scritta dal marito di Colman, Ed Sinclair, e diretta da Will Sharpe (Il visionario mondo di Louis Wain) – inizia con Susan e Chris ormai residenti in Francia anni dopo il fattaccio. Hanno speso tutti i loro soldi in memorabilia cinematografici, soprattutto cimeli riguardanti il divo preferito di Susan, Gary Cooper. Nel frattempo, i malumori di Chris sono confortati dalle lettere che riceve dal suo illustre amico di penna Gérard Depardieu. Bisognoso di soldi – e/o stufo di quella vita da fuggitivo – Chris confessa il crimine alla sua matrigna, e lui e Susan fanno ritorno in Inghilterra per provare in tribunale la loro innocenza.
Nel corso della storia, scopriremo che l’unica cosa su cui accusa e difesa divergono è il movente. La polizia pensa che gli Edwards siano degli avidi opportunisti, mentre Susan sostiene che l’omicidio sia il risultato di una vita di abusi fisici e psicologici. Dal momento che Susan è l’unica testimone degli eventi, gli agenti non hanno molto spazio di manovra. Quando vediamo Susan a colloquio col suo avvocato, Douglas (Dipo Ola), lui sembra più un supporto empatico che uno stratega legale. E persino gli interrogatori della detective Emma Lancing (Kate O’Flynn) sembrano andare sempre a senso unico.
Ci sono pochi colpi di scena, e in più il crimine in questione è piuttosto squallido e semplice, perciò vedere quattro ore di Landscapers può risultare a volte pesante e noioso, esattamente come le vite che vivevano Susan e Chris prima che lei facesse fuori i suoi genitori. Tuttavia, il fascino di questa serie deriva soprattutto dalle due notevoli performance di Colman e Thewlis, e dal modo in cui il regista confonde continuamente realtà e finzione. Visto che la vita di Susan è così modesta e triste, lei stessa cerca spesso il modo di renderla più romanzesca e simile ai suoi film preferiti. In alcuni momenti, vediamo Chris vestito da cowboy proprio come Gary Cooper; in altri, Susan e Chris sembrano due amanti di un noir anni ’30. Durante gli interrogatori con la polizia, gli Edwards sembrano due serial killer in un thriller in stile Il silenzio degli innocenti; e, in un altro interrogatorio ancora, l’agente Emma Lancing li porta letteralmente dentro un set in cui è ricreata la casa dei genitori di Susan. Presto, tutto si trasforma in un pastiche cinematografico.
«Non mi importa di essere esclusa dal mondo reale», dice Susan, «perché non ho mai sentito di farne parte. Io non sono mai stata qui, quindi cosa cambia? Dove sta la differenza tra l’essere qui fisicamente e l’essere altrove nella mia testa?». La differenza, per gli spettatori di Landscapers, sta nel gap tra quello che c’è nella testa di Susan e quello che c’è di fronte ai suoi (e ai nostri) occhi. Colman e Thewlis fanno del loro meglio per entrare nei panni di questi fuorilegge che si sentono larger than life quando invece sono solo due poveri comuni mortali; e Sharpe e la sua troupe filmano con destrezza questo mix di generi e stili. Ma non c’è lo stesso livello di forza e creatività nelle sequenze che dovrebbero ricondurci al crimine che sostiene tutto, e che non sembra sufficiente a giustificare quattro ore di visione.
In una delle lettere che Chris riceve da Depardieu c’è un passaggio sul senso dell’espressione “la vie en rose”: vuol dire «guardare in alto, verso le stelle, invece che in basso, dove c’è solo spazzatura. Vuol dire vedere la bellezza che c’è sempre nelle nostre vite, anche quando è difficile da scovare. Questo è lo scopo delle storie, questo è lo scopo del cinema». Landscapers riesce a rappresentare molto bene il valore e il conforto che anche i più disperati di noi possono trovare nelle storie, e nel cinema; ma solo a volte riesce a trovare la bellezza, in questa storia così trascurabile e sgradevole.