In un’epoca di canzoni-Frankenstein costruite da grandi team di autori e produttori assemblando frammenti registrati in giro per il mondo, comprese stanze d’hotel e camerini, Josh Homme ha fatto una cosa fuori moda. Ha riunito un gruppo di musicisti nel suo studio nel deserto di Joshua Tree, California e con loro ha creato un pugno di canzoni rock vibranti e niente affatto pretenziose. È difficile che dei 32 minuti di Desert Sessions vol. 11 & 12 vi restino in testa melodie e ritornelli. Ma è altrettanto difficile che non siate impressionati da alcune di queste performance che sembrano saltare fuori dalle cuffie.
È una cosa che Homme fa ogni tanto, quella d’inviare musicisti e amici nel suo studio nel bel mezzo del nulla. In quel posto nel deserto, dice, ci si libera di preconcetti e corazze difensive, si è più disponibili a intrecciare collaborazioni inattese. Homme non organizzava una cosa del genere da sedici anni. Ha penato un po’ per incrociare le agende di Billy Gibbons (ZZ Top), Les Claypool (Primus), Mike Kerr (Royal Blood), Carla Azar, Stella Mozgawa (Warpaint), Matt Berry, Jake Shears (Scissor Sisters), Matt Sweeney e dei misteriosi Libby Grace Hackford e Töôrnst Hülpft. Ci è riuscito nel dicembre 2018, un po’ perché i musicisti erano fermi per le feste e un po’ perché in quel periodo nel deserto di Joshua Tree non fa un caldo mortale.
L’idea è che mettendo assieme musicisti di talento e lasciandosi trasportare dagli eventi venga fuori qualcosa di buono. Funziona. Il beat elettronico sordo che apre Move Together non è quello che uno s’aspetta da un pezzo interpretato da Billy Gibbons, frontman dei tradizionalissimi blues-rocker ZZ Top. È uno stratagemma. Quando il suono si fa limpido e ad alta definizione arriva un riff di chitarra elastico e vivido, con le esplosioni volutamente disordinate delle batterie di Mozgawa e Azar che deflagrano una sul canale destro e una sul sinistro. È una delle cose migliori del disco e s’abbina a un testo sui bisticci fra uomo e donna: lei non sopporta le bottiglie di whisky vuote che lui lascia in giro, lui odia la lacca per capelli di lei. Avremmo preferito un pezzo in cui lei beve e lui s’imbelletta, ma Gibbons compirà 70 anni in dicembre, viene da un’altra epoca.
E insomma, i testi non sono il forte di queste Desert Sessions, ma non per questo ci si annoia. Sono otto canzoni varie, brillanti, colorite, alcune guidate dai riff robotici di Homme, sempre uguali, sempre eccitanti. Il chitarrista è anche un gran produttore: succedono continuamente cose nello spettro sonoro, i timbri sono meravigliosamente studiati pur sembrando naturali, le canzoni sono dinamiche e piene di svolte inattese. È musica eccitante anche quando è strumentale, come nel folk orientaleggiante, un po’ psichedelico e un po’ apocalittico di Far East from the Trees. Incuriosisce Something You Can’t See, incrocio fra il rock vagamente macho di Josh Homme e un testo sulla solitudine e la confusione provata da Shears in quanto gay. Nel caso pensiate che la faccenda è troppo seria, ecco Chic Tweetz con una base che sembra una versione buffonesca dei Rolling Stones e la parte comica recitata dal fantomatico lappone Töôrnst Hülpft, forse l’attore comico Matt Berry.
Da quando ha perso la sua centralità nella cultura pop, il rock vive di retromanie, dell’entusiasmo di giovani che suonano come vecchi, di stili e suoni un tempo rivoluzionari riproposti senza alcun guizzo creativo. Le Desert Sessions vol. 11 & 12 sono un bel freak show, il frutto bizzarro di un modo di fare musica novecentesco, ma hanno un sound a tratti esilarante e sono quasi sempre interessanti. In un mondo di algoritmi, ci ricordano che i musicisti sono esseri umani e che la musica ne riflette il gusto e il vissuto. Ma Desert Sessions vol. 11 & 12 è soprattutto un disco spassoso. Nel disegno in copertina l’indice di una mano spinge un bottone a cui è accostato il sottotitolo della session numero 11 “Arrivederci despair”. Qualunque cosa vi affligga, questo disco ve la farà dimenticare, anche solo per 32 minuti.