La cittadina di Knockemstiff è davvero roba da knockout. È un nome evocativo, non c’è dubbio: una reminiscenza gotico-pulp che subito fa pensare ai volti rugosi e inconfondibili dei vecchi caratteristi. È un luogo in cui sai già che troverai un predicatore di cui non ti puoi fidare, uno sceriffo che ambisce ad essere qualcosa di più, e una processione ininterrotta di balordi grotteschi e violenti. È anche, scopriamo presto, un posto che esiste davvero: è in Ohio, ed è lì che è nato lo scrittore Donald Ray Pollock, dal cui romanzo del 2011 Le strade del male il regista Antonio Campos ha tratto questo film, storia del giovane Arvin (Tom Holland) e della sua sorellastra Lenora (Eliza Scanlen), due anime impantanate in un torbido destino.
Siamo nella metà del secolo scorso, in un’America criminale che incrocia diverse generazioni, e dove la violenza e l’inganno sembrano connaturati ad ogni essere umano, molto più di qualsiasi barlume di bontà. Knockemstiff non è l’unico set di questa storia. Le strade del male ci conduce in altri luoghi che sembrano altrettanto maledetti come la non troppo distante Coal River, in West Virginia. Peccato che il film non si prenda la briga di dare un senso a tutto questo.
L’inizio in realtà promette bene. La narrazione non si apre con Arvin e Lenora, ma con la generazione precedente. In particolare, coi loro testardissimi genitori. Scopriamo che Arvin è stato cresciuto nel culto del Signore. Ma quando sua madre muore tragicamente, il padre Willard (Bill Skarsgård), veterano della Seconda guerra mondiale tornato a casa con gravi traumi psicologici, compie un gesto che sconvolgerà la vita del figlio per sempre. Anche Lenora ha un passato turbolento alle spalle: di mezzo ci sono sempre un padre pericolosamente devoto (Harry Melling) e una morte infausta (la madre di Lenora è interpretata da Mia Wasikowska, incomprensibilmente sottoutilizzata).
I due ragazzini finiscono a vivere insieme nella casa della nonna di Arvin, e uno di loro si ritrova subito alla mercé di un nuovo, infido predicatore, il reverendo Preston Teagardin (Robert Pattinson). Da questo momento, i destini già segnati nelle premesse vengono confermati da sviluppi che, in una complessità narrativa del tutto gratuita, paiono inevitabili. Non abbiamo ancora citato le storyline che riguardano altri nomi importanti dello sterminato cast (Sebastian Stan, Jason Clarke, Riley Keough), né la lista della spesa zeppa di altri temi a tinte nerissime: necrofilia, suicidio, cancro (ditene uno a caso: di sicuro c’è).
Le strade del male funziona di più quando getta le basi della sua storia che quando cerca di sfruttare il suo evidente potenziale, forse perché c’è troppa carne al fuoco. È un racconto gotico, ma l’idea che Campos ha del genere è troppo letterale. È come se avesse letto l’incipit del romanzo – «In una fosca mattina alla fine di un umido ottobre…» – e avesse deciso di illustrarlo pedissequamente sullo schermo. Il suo film è immerso nella mitologia tetra e trita dell’America di provincia, il che non è sbagliato, considerati soggetto e ambientazione. Il dopoguerra muscolare e machista è un ingrediente essenziale del folklore statunitense, una materia che ha spesso ispirato film bellissimi. È un dato di cui Le strade del male – con la sua pastosa fotografia in 35mm – è fin troppo consapevole: alla fine del film, ne siamo purtroppo consapevoli anche noi.
Dalla scena iniziale in poi, il materiale più interessante viene relegato al resoconto di un narratore onnipresente e onnisciente: la voce è quella dello stesso Pollock, che si ritrova a spiegare la storia al posto del film. È lui che trasmette agli spettatori gli aspetti più gustosi del racconto, attraverso un occhio da scrittore attentissimo ai dettagli. È lui che ci illustra il passato e il futuro dei personaggi, che mette in luce le connessioni tra loro, che unisce le loro vite interiori all’arco più ampio della parabola narrata.
Ma il narratore ha anche la brutta abitudine di spiegarci didascalicamente quello che vediamo in scena: sembra che Campos non si fidi di ciò che le sue stesse immagini ci possono comunicare. Quando la macchina da presa inquadra il viso di una donna, Pollock declama: «La sua famiglia è morta in un incendio, lasciandola da sola». Ok, cazzo. Un altro personaggio, di fronte alla morte, alza gli occhi al cielo verso un Dio assente, e in quel momento sentiamo: «Guardò verso le nuvole, chiedendosi come sarebbe stata la morte». La narrazione è per forza di cose ridondante: vediamo in quel medesimo istante ciò che ci viene inutilmente spiegato.
Il cast – un insieme riuscito di caratteristi, professionisti affidabili che è sempre un piacere vedere, star fascinosamente strambe (Wasikowska, Keough) e nomi da blockbuster desiderosi di fare a pezzi la loro immagine di divi (Pattinson, Holland) — fa del suo meglio per infondere emozione e coerenza in questo copione scombinato. Soprattutto Pattinson – viscido, inquietante, intrigante – cerca di rendere il suo personaggio interessante, alzando di un tono la sua voce e facendo del suo predicatore un bastardo senza possibilità di redenzione.
Ma il film non parte mai. Le strade del male ha la pretesa di essere un racconto quasi mitologico sulla “pancia” più profonda e oscura di una comunità e di una nazione. Ma la disperazione è solo una messinscena. Sembra che – in tutto il suo discorrere di resurrezione e perdono, e nei pochi sprazzi di misercordia e altruismo che si scorgono in questa sottolineatissima malvagità – Dio faccia di tutto per far fallire le vite dei personaggi: alla fine, però, fa fallire anche il film.