Lei è la pioniera dell’arte digitale DIY e del noise pop contaminato, il suo nuovo album Mata è la chiusura di un cerchio, s’ispira al passato e aspira a rappresentare lo zeitgeist.
Sono passati vent’anni da quando M.I.A. ha catturato l’attenzione grazie ai suoi pezzi caotici e carichi di campionamenti. È diventata una star al contempo profetica e divisiva, e ha portato nel mainstream temi come la geopolitica, l’imperialismo occidentale, le storie dei rifugiati. Nel farlo, ha sollevato non poche polemiche, alcune motivate, altre meno. È successo anche poco prima dell’uscita di Mata quando ha criticato su Twitter i vaccini e s’è detta interessata a partecipare al talk show della conservatrice Candace Owens.
Con Mata, M.I.A. ci ricorda quant’è peculiare il suo stile proponendo soluzioni musicali che si rifanno ai collage sonori dei suoi album del 2005 e 2007, Arular e Kala. Nei 13 brani pulsano ritmi moombahton, c’è del funk carioca e poi cori di bambini, percussioni del’Asia meridionale, temi da colonna sonora di film Tamil. Quest’ampia varietà di riferimenti suona ancora nuova in un panorama musicale come quello attuale in cui una giramondo come Rosalía diventa superstar e l’electroclash sta tornando in grande stile grazie al revival dell’indie sleaze partito da TikTok.
Anche i testi strizzano l’occhio al passato, ma convincono meno. M.I.A. tira fuori vecchie polemiche, come nella turbolenta F.I.A.S.O.M. Pt. 2, e si descrive come una reietta e una veggente inascoltata anche quando regala osservazioni banali come “la libertà è uno stato mentale”. Tutto ruota attorno all’idea di resistere alle pressioni fortissime che la fama comporta; in Beep, traccia riempipista, dice d’aver capito che “non può accontentare tutti” dopo “avere provato a essere tutto ciò che volevate io fossi”.
Presentato come un progetto incentrato sul conflitto fra ego e spiritualità, Mata vede M.I.A. cadere nella spacconeria fine a sé stessa. Pezzi come The One e Popular, con il suo andamento reggaeton, sono accattivanti, ma non offrono molto altro a parte l’autoincensarsi della rapper: “Mi amo / Faccio la vita migliore che c’è”, dice il ritornello di Popular.
Le riesce meglio la creazione del mito di sé in pezzi come Zoo Girl e Time Traveller, i cui testi giocosi fanno riferimenti specifici alla sua esperienza di rifugiata Tamil dello Sri Lanka e ragazza di terza cultura. Nel primo brano si definisce una che “dallo zoo è arrivata dal selvaggio est” e “un’aliena che ti sbatte in faccia l’unità”; nel secondo dipinge un’immagine futuristica dell’artista che si muove liberamente nello spazio su un vimāna, uno dei palazzi o carri volanti mitologici citati nei testi hindu e sanscriti.
L’album si chiude con Marigold, una ballata rap in cui si piange la condizione apocalittica in cui versa il pianeta, con tanto di cori di Lil Uzi Vert. I fiori che M.I.A. cita nel titolo sono simbolo di speranza e luce, ma il messaggio finale della traccia è deprimente. “Abbiamo bisogno di un miracolo”, canta M.I.A. Sottintende che solo un atto divino potrebbe salvare il pianeta e che non c’è modo di salvarsi. Su un tappeto di chitarra acustica, si definisce nuovamente un’oracola e una salvatrice che compare “quando il dovere chiama”.
M.I.A. c’è, ma non è chiaro se ha qualcosa di nuovo da dirci.
Tradotto da Rolling Stone US.