'Maniac', la recensione | Rolling Stone Italia
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‘Maniac’ è un bellissimo esperimento nonsense

La nuova serie di Cary Fukunaga dimostra che era lui il vero motore creativo di 'True Detective': tra inquadrature spettacolari e fantasie surreali per curare la depressione

Owen Milgrim (Jonah Hill), il protagonista malato di mente di Maniac, il nuovo drama di Netflix, è ossessionato da ciò che è reale e ciò che non lo è davvero. È difficile biasimarlo, perché la sua malattia si manifesta nella forma di un allucinato doppelganger del suo orribile fratello Jed (Billy Magnussen), che assegna a Owen inesistenti missioni di spionaggio. Il nucleo della nuova miniserie, adattata dall’omonimo show norvegese, gira attorno a Owen e alla depressa Annie Landsberg (Emma Stone), mentre si sottopongono a una sperimentazione clinica dove provano una fantasia computerizzata dopo l’altra con l’obiettivo di diagnosticare, confrontare e sconfiggere i loro problemi interiori. La sperimentazione è reale? E Annie? Oppure la sua “vera vita” è una di queste fantasie, e tutto il resto un’illusione particolarmente triste?

Ciò che è reale, dice Owen a Jed, è “tutto quello che ha importanza”.

Siamo in un momento della storia della tv in cui la domanda di Owen è la stessa che si pongono gli spettatori quando devono scegliere cosa guardare. Che cos’è reale – oppure, ciò che merita che gli si dedichi del tempo – e cosa un’illusione creata da un regista di grande talento? (Fate ciao a Westworld). Maniac è qui per dirci qualcosa, o è tutto fumo e niente arrosto?

Emma Stone in ‘Maniac’. Foto press

Esattamente come i tentativi di Owen per scoprire se quello che gli sta accadendo sia o meno un’illusione attivata da un farmaco, la risposta a questa domanda è complicata. La serie – disponibile su Netflix dal 21 settembre, e io l’ho vista tutta – è ricca di immagini straordinarie, scene esagerate e grandi performance di Stone, Justin Theroux e Sally Field. Per quanto riguarda “l’arrosto”, invece, dobbiamo dire che la serie non raggiunge mai il livello a cui aspira, ma è talmente strana, bella, sorprendente e sì, divertente, da non farmici pensare granché. I nuovi abiti dell’imperatore saranno pure invisibili, ma diavolo quanto gli stanno bene.

La storia decolla lentamente, e già all’inizio è ricca di dettagli intricati. I primi due episodi sono largamente dedicati alla scoperta di Owen (la pecora nera di una ricca famiglia guidata dal buon Gabriel Byrne) e Annie (arrabbiata, dipendente dal fumo e incastrata in un loop di promesse mai mantenute a sua sorella Ellie). La parte più interessante di questi primi capitoli, tuttavia, è il mondo costruito da Fukunaga e Somerville, retrò e futuristico allo stesso tempo. Tutta la tecnologia sembra provenire direttamente dagli anni ’80 – stampanti, computer con monitor CRT e testi verdi su sfondo nero – ma ripensata per convivere con le nostre abitudini quotidiane. Invece di Facebook, per esempio, c’è Friend Proxy, dove assumi qualcuno per interpretare l’amico che non puoi avere nella vita reale, per una ragione o per l’altra.

Ci sono davvero molti dettagli nascosti ai margini delle inquadrature di Fukunaga, e non importa se la serie impiega quasi quattro episodi per cominciare davvero. Mentre il dottor James Mantleray, l’inventore del processo, Owen, Annie e le altre cavie sono impegnati nei loro esperimenti, Theroux costruisce un’esilarante parodia di se stesso. Mantleray indossa uno squallido parrucchino ed è emotivamente distrutto ben prima che sua madre Greta (una psichiatra interpretata da Sally Field) venga coinvolta nel progetto. Le battute del personaggio di Theroux rischiano di affogare in un mare di tecnicismi inutili, ma fortunatamente l’attore riesce a dare un tocco d’ironia alle parti più assurde della sceneggiatura. Sonoya Mizuno, nel frattempo, è l’intrigante Dr. Fugita, l’ingegnere che ha costruito la macchina che fa funzionare il progetto. Non è chiaro quanto sappia davvero e quanto sia tutta un’impressione derivante dalla sua incredibile poker face e dalla sigaretta perenne.

Mentre Owen e Annie sono completamente immersi nella sperimentazione, Maniac decolla davvero. A causa di un glitch nel computer di Fujita, i due si ritrovano collegati in una serie di bizzarre fantasie dove, tra le altre cose, appaiono un lemure rubato, una truffa nel leggendario capitolo perduto di Don Chisciotte, una missione fantasy e un’invasione aliena. È tutto strano ed esagerato, e non importa se può davvero curare la schizofrenia o la depressione, ha un’energia contagiosa.

Gran parte del merito è di Fukunaga, che dirige tutti gli episodi. Con il tempo abbiamo capito che era lui il vero motore creativo di True Detective, e la bellezza di ogni inquadratura di Maniac lo conferma. C’è un piano sequenza – simile a quello del quarto episodio di TD – quasi impossibile da replicare, ma Fukunaga è andato molto più in profondità di così. Ha preso il controllo di questo pastiche fantasy con talmente tanta inventiva che non viene difficile immaginare versioni complete – film veri e propri – tratte da ogni singola strana fantasticheria* dello show. Ma anche il cosiddetto “mondo reale” – i flashback di Annie e del suo roadtrip con la sorella, per esempio – sembra il frutto di un lungo meeting dove Fukunaga, Somerville e il resto della crew hanno immaginato un nuovo modo per mostrarci immagini che abbiamo già visto milioni di volte.

Jonah Hill

(*) E ancora, una delle scelte più intelligenti dello show è tenere gli episodi al di sotto dei 40 minuti, quasi tutti dedicati alle fantasie. Ogni idea è esplorata e poi lasciata andare, così da non annoiare mai

Emma Stone, soprattutto, è grandiosa dopo ogni svolta narrativa e in tutti i diversi generi in cui si trova a interpretare il suo personaggio. Alcune delle cose che fa in alcune delle fantasie sono borderline, quasi un cartone animato, ma è la storia a richiederlo. Ed è un bel contrasto con la rabbia e la stanchezza che Annie sente una volta tornata nel mondo reale. È lei ad avere l’arco narrativo più interessante, e l’attrice ne approfitta alla perfezione.

La performance di Johan Hill, invece, ha esiti contrastanti. Come spesso succede con i suoi ruoli drammatici, questo Owen non è definito da una certa personalità ma piuttosto dalla mancanza della stessa: muto, isolato, la sua presenza sembra occasionale. È un processo sensato per catturare l’alienazione sentita dal protagonista, ma a volte sembra che il personaggio stesso non sia reale, o perlomeno che lo sia meno di Annie. E Hill non sembra sempre a suo agio nelle scene più fantasy, soprattutto paragonato a Emma Stone.

Forse è proprio il non-sviluppo di Owen, o la natura nonsense dell’esperimento a far sembrare Maniac più vuoto di quanto vorrebbe essere. Ma come la sperimentazione clinica dovrebbe sollevare i pazienti dalle fatiche della loro vita quotidiana, allora l’audacia della serie è benvenuta in un mondo televisivo dove gli show tendono ad assomigliarsi sempre di più. Coerenti ma piatti.

È reale? Diavolo se non lo so. È divertente? Assolutamente.

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