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Marco Bellocchio, dolor y gloria

Il dolore al centro del documentario ‘Marx può aspettare’, ora al cinema dopo la Palma d’onore a Cannes. E la gloria di una carriera che trova in questo capolavoro insieme straziante e gioioso la sua sintesi lucidissima
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Non metterò qui la solita citazione di Tolstoj sulle famiglie infelici, anche perché la famiglia Bellocchio è, ancora oggi, una famiglia felicissima. Marx può aspettare, in sala spero ancora per molto, inizia con tutti – Marco e i suoi fratelli, e i figli, i nipoti, i vivi e anche i morti – riuniti attorno al grande tavolo di un circolo piacentino: si può forse essere tristi davanti a un piatto di pisarei e faśö?

Eppure Bellocchio, il narratore di questa storia (della sua storia), parla di «una vita di arida infelicità», quando descrive gli anni di dolor y gloria che sono il cuore del suo ultimo, splendido film. Il dolore per una tragica perdita (se non sapete di cosa parlo, non cercate su Google: andate al cinema); la gloria di essere, nemmeno trentenne, il nuovo prodige del cinema italiano, quello dei Pugni in tasca e La Cina è vicina, e insieme restare il figlio, il fratello, il provinciale che smonta la borghesia piccola piccola padana per poi, di fatto, restarci attaccato. Lo conferma appunto la serenità – seppur sempre critica, lucida, affilata – con cui si riunisce attorno a quel tavolo insieme ai parenti tutti, già raccontati altrove, già usati come materiale filmico e psicanalitico.

Foto: 01 Distribution

Marx può aspettare è però, in questo solco, il vero capolavoro, e uno dei capolavori ultimi di Bellocchio in assoluto. È, come si dice oggi, autofiction, ma anche un saggio sul (fare) cinema, un (anti) family movie gioioso, un dramma che ti strazia. E – ed è ciò che rende il regista ottantunenne (dove si firma?) autore unico da noi e pure altrove – una detection appunto lucidissima e a volte spietata, un’indagine sugli affetti più cari condotta con il piglio dell’investigatore super partes che non risparmia nessuno: soprattutto sé stesso.

Bellocchio (si) interroga su quel che di terribile è successo e schiera i personaggi del caso: «la madre», «le due povere sorelle», così le chiama, figurine presentissime eppure astratte, che sembrano prese da un racconto di Parise. E rende il lutto, la perdita, il dolore semplicemente qualcosa di cui parlare, rimproverandosi col sorriso (gli scambi con la sorella dell’ex quasi-cognata) o rimettendo in discussione quello che forse si è sempre creduto di sapere (di fronte ai suoi stessi figli, attorno a un altro tavolo).

In una famiglia – e in una famiglia così numerosa ancora di più – ciascuno deve trovare il modo di sopravvivere: è questo il nodo, che riguarda i Bellocchio e che ci riguarda tutti. Ciascuno deve capire come rendersi autonomo dagli altri, come amare, come brillare, come soffrire; deve decidere se andarsene o restare, o tutte e due le cose insieme.

Il titolo Marx può aspettare è una frase del fratello protagonista di questa storia, e una battuta che Bellocchio aveva già messo in un suo film: Gli occhi, la bocca, che raccontava la stessa storia e che qui è citato come tanti altri. Dentro questo falso documentario, dicevo, c’è tutto il suo cinema, fino alla disperata bestemmia dell’Ora di religione che sembra chiudere tutti i cerchi. Il laicissimo Bellocchio trova, in Marx può aspettare, la sintesi di una carriera e di un discorso filosofico ed esistenziale che forse non sarà mai pacificato, ma è giusto così. La trova in questo film che è, insieme, confessione e (auto)assoluzione, atto privato e politico, e la cosa più spirituale che abbia mai fatto, la più bella storia di famiglia che abbia mai raccontato.

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