Se pensi alle più grandi stelle dell’elettronica (la chiamiamo così per semplicità e per motivi di spazio), non è certo quello del caro, vecchio Moby il primo nome che ti salta in mente: in parte perché il successo planetario è stato messo agli atti già da un po’ di anni, ma anche perché la popolarità delle sue composizioni – che abbiamo sentito ovunque: dalle colonne sonore dei telefilm alle pubblicità di automobili – non si riflettono in un personaggio propriamente da copertina.
Nato a Harlem nel 1965, Richard Melville Hall (perdoni chi lo sente ripetere per la centesima volta: è imparentato con il Melville scrittore, da cui il nomignolo che rimanda alla grande balena bianca, affibiatogli dalla madre, nda), Moby ha mantenuto per quasi tutta la carriera un look fatto di jeans quasi-da-buttare, scarpe sportive decisamente lontane dalla moda, calzini corti e maglia col cappuccio, un insieme con il quale siamo abituati a individuare gli startappari californiani, ma che tradisce un’adesione in spirito alle frange più monastiche del punk hardcore.
Anche la “faccia facciosa” da Charlie Brown – una delle primissime facce della scena ad apparire sulle copertine delle riviste – era perfetta per l’artista, che iniziò a essere considerato come una specie di rarità nei club newyorkesi perché cristiano, vegano e sobrio. Tutto vero al tempo dei primi brani – ricordiamo tra tutti Go, influente incrocio house e techno – sempre meno vero con il passare degli anni: racconta in Porcelain, autobiografia uscita questa primavera anche in Italia, la progressiva ghiottoneria per sesso occasionale, alcol e droga in una parabola rock&roll pedissequa che, però, racconta con grande talento e ironia.
Moby è particolarmente noto per Play, album realizzato nel 1999, gonfio di grandi successi costruiti intorno a campioni vocali blues dalle registrazioni dell’etno-musicografo Alan Lomax e atmosfere sognanti che si distendono su una battuta lenta. Disco epocale, ma anche irrimediabilmente ambiguo per la spensieratezza con cui si appropriava di tradizioni ed esecuzioni di musicisti sconosciuti (cui tra l’altro non è stato corrisposto nemmeno un centesimo, per raccontare anche l’altro lato della medaglia) vendendo poi 10 milioni di copie, a non voler conteggiare le infinite licenze che dicevamo. Si potrebbe dire che Play rappresenta la sintesi spudorata di come l’industria dell’intrattenimento ha prelevato culture spontanee, le ha coltivate, conferendo loro un alone di esotica autenticità, per poi rimetterle in commercio. Ma ha anche mostrato al mondo un artista che portava con sé parecchie cose da raccontare.
Come l’angelo Christina Ricci, che nel video di Natural Blues accompagna il morente Moby nel corpo nuovo di un bebè sorridente all’interno di uno spazio bianco, quasi astratto; la musica del nostro recide dai loro habitat naturali lembi di house di Chicago, deep newyorkese e soprattutto ambient chill-out proveniente dal Regno Unito: li rende asettici per giungere a una musica incorporea quanto intimista, sostanzialmente onesta e, in un certo senso, originale. Moby ha passato gli ultimi 17 anni, tra alti e bassi, a perfezionare quell’idea, a virarla qualche volta sull’ambient, qualche altra più sul pop strumentale, e oggi se ne esce con un disco urlato e distorto, che sembra registrato all’interno di una scatoletta di tonno. Quando nelle tracce entrano le drum machine, programmate a un livello primordiale, ti scappa quasi da ridere. These Systems Are Failing sembra realizzato da un gruppo di giovani della provincia americana, infoiati con new wave e post-punk, a cui è stata regalata per Natale una fornitura completa di giocattoli elettronici per sbizzarrirsi nel basement. È un lavoro forzatamente minore, impregnato di uno spirito teenager irrequieto e limpido. E certamente, questo disco è una delle cose più interessanti sulle quali il nostro Richard abbia mai messo mano.
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