Nel secondo episodio di Modern Love, la serie antologica di Amazon basata sulla famosa rubrica New York Times, una giornalista, interpretata da Catherine Keener, dice: “A volte ti rendi conto che il vero amore, nella sua forma più assoluta, ha molti scopi nella vita. In realtà non si tratta solo fare figli, o di romanticismo, o di anime gemelle, o di stare insieme per tutta la vita”.
Il personaggio di Keener fa parte di una storia (insieme a Dev Patel nei panni del creatore di un’app di appuntamenti) sul romanticismo e sull’uomo/la donna della vita – in particolare, il pericolo di perdere un potenziale compagno perfetto a causa di un errore. Ma come accadeva sulle pagine del Times, la serie – sviluppata da Johns Carney il regista di Once, Sing Street e Tutto può cambiare – è interessata a diverse forme di amore: quello genitoriale e quello platonico, il sentimento che si è inasprito col tempo, la necessità di amarsi di fronte alla ragione schiacciante di non farlo, e tanto altro ancora.
Solo un episodio (At the Hospital, An Interlude of Clarity, quinta puntata in stile Prima dell’alba) riguarda principalmente una coppia (John Gallagher Jr. e Sofia Boutella) all’inizio di una relazione. Ma anche questa puntata – in cui un infortunio costringe i due a trascorrere la maggior parte della seconda uscita in una stanza d’ospedale – non si concentra tanto sulla questione se abbiano un futuro insieme o meno, per mostrare invece come un’esperienza simile riesca ad abbattere i soliti meccanismi di difesa che le persone usano in questa fase. Anne Hathaway ha un paio di appuntamenti con Gary Carr (The Deuce), ma Take Me As I Am, Whoever I Am in realtà parla della protagonista che affronta il suo disturbo bipolare e dell’importanza di parlarne agli altri. Molti riguardano la gravidanza, tra cui When the Doorman Is Your Main Man, con Cristin Milioti, e Hers Was a World of One, con Andrew Scott, l’Hot Priest di Fleabag. Uno, Rallying to Keep the Game Alive, scritto da Sharon Horgan, coinvolge una coppia di mezza età (Tina Fey e John Slattery) che cerca di evitare il divorzio, mentre il finale (The Race Grows Sweeter Near the Final Lap) parla di un amore tra due persone mature (Jane Alexander e James Saito) che si sposano dopo la morte dei rispettivi coniugi.
È un gruppo eclettico di scenari e relazioni, anche se c’è qualche sovrapposizione. Sia l’episodio del portiere che il sesto – So He Looked Like Dad. It Was Just Dinner, Right?, con Julia Garner e Shea Whigham – coinvolgono donne più giovani che cercano in uomini più anziani il tipo di sostegno e saggezza che i ragazzi della loro età non sembrano in grado di offrire. Del resto l’intero show è molto in linea con il Times, pieno com’è di case strepitose e musica jazz (come nella maggior parte dei film di Carney, ci sono anche canzoni originali). I personaggi sono culturalmente diversi, ma quasi tutti benestanti: persino la ragazza (Olivia Cooke) che decide di dare la figlia in adozione a Scott e al marito è una senzatetto che agisce in nome di una scelta di vita e non di una necessità economica (è anche amica di Ed Sheeran, che questa volta non interpreta se stesso ma un clochard).
Ma se le storie possono cadere nella trappola dell’auto-adulazione e dei “ricchi nell’Upper West Side: sono proprio come noi!”, molte sono anche sincere, ben pensate e hanno una generosità di spirito che caratterizza il lavoro di Carney. Non tutte le puntate funzionano (*) – quella di Horgan/Slattery/Fey è deludente e monocorde (e una delle tante in cui avrebbero fatto bene a cambiare titolo originale del Times) – ma la maggior parte riescono nell’impresa non facile di risultare tenere senza essere troppo stucchevoli.
(*) Con uno show antologico tradizionale come questo che debutta in piena Peak TV, arriva l’inevitabile domanda su quali episodi guardare e quali invece saltare. Ovviamente dipende dai gusti e dalle esperienze di vita: un mio amico ha apprezzato solo la puntata Fey/Slattery e odiato quella di Anne Hathaway, che è una delle mie preferite. È probabile che farete la vostra selezione anche in base agli attori e/o al tema. Un avvertimento: mentre la maggior parte degli episodi sono completamente sconnessi, l’ultimo, The Race Grows Sweeter Near the Final Lap, in qualche modo tocca tutti gli altri.
Naturalmente la bravura degli attori aiuta moltissimo. Hathaway, per esempio, è da sola sullo schermo per quasi tutta la puntata, che racconta la sua euforia con numeri musicali alla La La Land e il suo stato depressivo come un mondo oppressivamente grigio in cui soltanto alzarsi dal letto richiede uno sforzo sovrumano. La storia non cerca di mostrarci in che modo la vedono altre persone tipo Carr, ma di farci capire come si sente la protagonista quando è intrappolata dentro quella visione. La fascinazione paterna che Garner sviluppa nei confronti di Whigham è imbarazzante in modi che vanno ancora più in profondità di quanto l’episodio non riconosca, ma gli attori riescono a interpretarla in maniera comprensibile. Alexander e Saito sono deliziosi nei panni degli amanti che non si aspettavano di trovare un altro partner alla loro età. E nella storia dell’ospedale, Sofia Boutella trova umanità in un ruolo scritto non benissimo, che le affida anche la peggior battuta della serie (e una delle peggiori dell’anno), quando dice a Gallagher che sta raccontando la loro esperienza in live-blogging sui social. (Aspettiamo con impazienza la scena tagliata in cui spiega ai personaggi più vecchi della serie come funzionano lo streaming e il binge watching).
Un anno fa Amazon Prime Video aveva debuttato con un’altra serie antologica dal cast stellare e un regista acclamato. Ma I Romanoffs di Matthew Weiner (Mad Men) non era facile da amare, per una serie di motivi. Come molte relazioni, Modern Love è imperfetta, ma il suo cuore è nel posto giusto. E questo fa tutta la differenza del mondo.