Altro che James Bond: viaggi in prima classe, Martini shakerati non mescolati, donne bellissime che cadono ai suoi piedi, pantaloni che tengono la piega anche dopo un disastro aereo. La vita vera dell’agente segreto è molto lontana dall’immagine glamour che ci ha consegnato Hollywood. Lo racconta benissimo Mostri che ridono, ultimo romanzo di Denis Johnson, l’autore, tra gli altri, di Jesus’ Son (fenomenale raccolta di racconti, pubblicata in Italia nel 2000) e Albero di fumo (imponente romanzo sulla guerra in Vietnam, con cui Johnson ha vinto il National Book Award nel 2007).
Roland Nair, protagonista e narratore, atterra nell’aeroporto di Freetown, Sierra Leone, dopo un’assenza lunga un decennio. È un americano di origini scandinave, che lavora per un’agenzia di intelligence occidentale. È semi-alcolizzato: o almeno, lo è quando si trova in Africa. È stato inviato lì per rintracciare un ugandese di nome Michael Adriko, un suo vecchio contatto, ora in forze all’esercito americano, sospettato di traffici illeciti (uranio arricchito, per la precisione). E qui le cose si complicano: anche Nair ha qualcosa da vendere al miglior offerente: documenti classificati che contengono l’ubicazione della rete di comunicazioni della CIA nel continente africano. E Adriko – imprevedibile, umorale, sempre sopra le righe – è amico di Nair. Forse addirittura il suo migliore amico: se è mai possibile, per uomini del genere – per questi specialisti internazionali dei lavori sporchi – avere rapporti personali degni di questo nome. Adriko coinvolge Nair in un’impresa ancora più assurda del traffico di armi o d’informazioni: un road trip verso il suo villaggio d’origine, al confine tra Uganda e Congo, dove convolerà a nozze con l’affascinante fidanzata americana, Davidia St Claire; e Nair, ovviamente, farà da testimone, pur essendo a sua volta un po’ innamorato di Davidia. Per i motivi di cui sopra, il gruppetto ha già parecchia gente sulle loro tracce, ma per non farsi mancare nulla Adriko ha disertato l’unità delle forze speciali a cui era assegnato, e non solo: Davidia è la figlia del suo comandante, il Colonnello Marcus St Claire, non particolarmente favorevole a questa unione. “Seguiranno altre rivelazioni”, come ama ripetere Michael Adriko davanti alle crescenti perplessità di Nair.
Il controllo del plot non è mai stata la principale abilità di Denis Johnson, e in Mostri che ridono, con l’evidente spaesamento (esistenziale, morale, e pure letterale) dei suoi personaggi, è ancora più evidente. Cosa ci fanno davvero questi personaggi in Africa? Che cosa li spinge a tornare lì? A un certo punto, parlando di Adriko, Nair confessa: “[…] se voi, miei superiori, pensate che l’abbia raggiunto perché mi ci avete mandato voi, vi sbagliate. Sono tornato perché mi piace il caos. L’anarchia. La follia. Le cose che crollano. Michael mi ha fornito solo la scusa per ritornare”.
Come possono omogeneizzarsi tutti questi ingredienti? Mostri che ridono non è certo il lavoro più riuscito di Denis Johnson, e sarebbe paradossale che un nuovo lettore scoprisse un autore così interessante proprio con questo romanzo. Però non sono molti gli scrittori che avrebbero il fegato di mettersi a raccontare una storia così complessa, cosmopolita e cinematografica: immaginatevi un autore italiano alle prese con lo stesso soggetto, per esempio. Mostri che ridono è stato accostato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad e alla elegante narrativa di spionaggio di Graham Greene. Ma il corrispettivo più calzante, forse, è il film Il salario della paura, capolavoro di William Friedkin del 1977: le disavventure al limite dell’horror di personaggi che odiano se stessi, immersi in una natura livida e ostile, spinti da qualcosa che credono essere brama di denaro, e invece è solo brama di morte. Il problema di tutti questi avventurieri, compresi quelli improbabili e un po’ abietti di questo romanzo, è che un giorno, nel loro passato, hanno smesso di dire la verità, anzi: la verità stessa ha smesso di avere senso, e il risultato è che niente può più essere preso sul serio. Alla lunga per il lettore è frustrante. Ma sembra la precisa intenzione di Denis Johnson: ritrarre questi cittadini del mondo nel loro habitat naturale. Peccato che questo mondo sia un mondo sbagliato, su cui la globalizzazione non ha distribuito ricchezza e ordine, ma ha soltanto generato mostri. E l’Africa è il playground perfetto per esercitare la cupa libertà di un tempo senza più regole, in cui nemmeno i giocatori abituati a muoversi nell’ombra ci capiscono più qualcosa. Ma, ormai lo sappiamo, seguiranno altre rivelazioni.
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