A Cannes staranno facendo salti di gioia. La loro anacronistica e ottusa battaglia contro i film che scelgono Netflix e altri player di streaming online al posto delle sale cinematografiche, sembra trovare terreno fertile nella mediocrità dei prodotti arrivati ultimamente. E se The Cloverfield Paradox si era salvato con una sufficienza molto stiracchiata, Mute, di Duncan Jones, è una delusione cocente. Talmente tanto da farci sospettare che qui e ora, lo streaming, è ancora una soluzione di ripiego per film non riusciti che magari abbiando brand (Cloverfield) o firme autorevoli.
Uscito il 23 febbraio su Netflix, era attesissimo dopo il piccolo capolavoro Moon – di cui Mute, secondo il cineasta, è un sequel ideale – e l’ottimo Source Code, ma anche per capire se Warcraft – L’inizio fosse stato una svolta verso il mainstream e un immaginario diverso o solo un redditizio e persino interessante intermezzo. In un modo o nell’altro, insomma, il fu Zowie Bowie (si diede il nome Duncan Jones appena maggiorenne), finora non ne aveva sbagliata una. Fino ad oggi, in cui un’opera che era un’ossessione, a cui aveva cominciato a lavorare dal 2003, vede la luce senza quella lucidità di pensiero e quella potenza immaginifica che gli conoscevamo.
A stupire, però, ancora di più è la scarsissima qualità della scrittura, caotica e incoerente, figlia di una trama sconclusionata e di un debito fin troppo eccessivo verso l’Edipo totalmente irrisolto e piuttosto inquietante dell’autore. Tanto che l’unico colpo di scena vero arriva alla fine, con il cartello con cui il regista dedica a David Jones e Marion Skene il film, “in ricordo di coloro che sono stati genitori”. Il primo è il vero nome del Duca Bianco, suo padre, mentre Marion era la sua famosissima tata, scomparsa poco più di un anno dopo quel maledetto 10 gennaio 2016 e che per Duncan è stata a tutti gli effetti una madre. Tanto che lui, la dedica, la fa perché venga letta dal mondo e soprattutto dalla madre naturale, Mary Angela Barnett, ancora in vita. Mute non è un’opera per il pubblico quanto un modo per regolare i conti di una vita sconvolta da morti e nascite – ha perso i suoi punti di riferimento, negli ultimi due anni, il cineasta, ma ha visto anche nascere il figlio Stenton David -; un clamoroso viaggio neanche troppo metaforico nei concetti di maternità e paternità, di amore, di figli, di radici, di morale.
Quella famiglia Amish che costringe Leo, il protagonista (un Alexander Skarsgård clamoroso, va detto: gli attori son l’unica cosa buona del film), a rimanere muto, quella madre che ha lasciato un padre solo e inadeguato, ciò che accade ai genitori in questo film, servono più a scandagliare la psiche del narratore che a costruire un lungometraggio degno di nota. E certo, ragionando sul filo della metafora si riesce a capire il dolore di un ragazzo che fu abbandonato dalla madre e affidato a un padre che lo confinò in uno dei migliori collegi svizzeri. Di un talento cristallino che ha voluto da subito stabilire una distanza con il genio paterno e che si è costruito un percorso autonomo al cinema, di chi si era tenuto prudenzialmente lontano dal mondo in cui era cresciuto.
Ma i nodi vengono al pettine e questo super Edipo cannibalizza un film che sembra vittima, in scrittura, proprio dei messaggi che vuole mandare, delle metafore che vuole imporre, della morale che cerca. E tutto è funzionale al progetto emotivo di Jones, l’evoluzione della storia zoppica in ogni momento perché dentro ci sono almeno tre piste diverse ma un filo narrativo troppo debole per reggere addirittura 126 minuti. Funzionano solo gli attori – e non a caso le figure maschili -, dall’antieroe muto e con lo sguardo perduto a un Paul Rudd ciarliero e scorbutico, ironico e carismatico, passando per un irriconoscibile Justin Theroux. Troppo poco, perché anche loro sono alle prese con ruoli costruiti in modo macchinoso, stereotipi che cercano riscatto in dialoghi poco fluidi sprazzi di originalità e in colpi di scena telefonati o, peggio, forzati.
È irriconoscibile la mano di Duncan Jones in Mute, non c’è la tensione narrativa di Source Code, il nitore della visione registica e della scrittura di Moon, neanche la voglia di creare un nuovo immaginario di Warcraft. Qui la fantascienza è uno sfondo di genere, la Berlino del 2052 una cartolina dal futuro di una città troppo importante per l’illustre papà (aridaje), Leo – non a caso il personaggio più curato – lo specchio di un’anima inquieta che è cresciuta con chi non poteva né voleva ascoltarlo.
La speranza è che uno dei cineasti più geniali e dotati della propria generazione ora abbia chiuso i conti col passato e possa ricominciare a inventare cinema. A non nascondersi più dietro una fotografia piatta soprattutto quando cerca ombre e colori di un futuro prossimo, a un’estetica alla Akira già vecchia anni fa (verrebbe da scomodare il cyberpunk, ma al massimo scimmiotta malocchio qualcosa di Bowie cinematografaro), a un eroe solo e disperato. Duncan Jones non ha bisogno di scorciatoie artistiche ed emotive, ma di un ottimo script. E, forse, di non sentirsi più figlio. Anche al cinema, dove deve convincersi di non essere più un emergente, ma un giovane maestro.