Ogni film di Nanni Moretti che si apre con un’inquadratura su Nanni Moretti è un buon film. E quindi eccolo, nel primo fotogramma, il regista ripreso di spalle mentre scruta dall’alto la vastità urbana di Santiago del Cile. Ricomparirà, fisicamente, una seconda volta per manifestare a un ex militare golpista la sua non imparzialità nella ricostruzione della vicenda, mentre più spesso lo si sentirà come voce fuoricampo domandare, insistere, dubitare.
Santiago, Italia, ormai è chiaro, non è un film ma un documentario classico con le immagini di repertorio e tutto il resto. Immagini peraltro non banali, quelle del prima soprattutto. Il Cile ascendente, l’infatuazione comunitarista, e poi la vena liminale dubitativa, tutto chiaro nei primi 15 minuti. Il contesto storico è noto ma non stanca: 11 settembre 1973, assalto alla Moneda, morte – suicidio, il dibattito no! – del presidente Salvador Allende, golpe Pinochet, fine libertà (17 anni), voti, cuori e sogni, tutto arso in un attimo e contro un popolo che Allende aveva condotto eroicamente al socialismo per eccezione senza sierre maestre, unicum regionale da santo subito. Invece Henry che avrebbe dovuto erigergli un bronzo optò per il mogano. “I danni di Kissinger applicando alla lettera la realpolitik”, prossimamente su Netflix. Tanto per dire, in questo caso sono 45 anni di Var.
La storia con la s maggiore è il risultato della composizione di un numero infinito di storie minori, così dicono. Moretti ne piglia una, questa: mentre la giunta militare arresta tortura insomma fa la giunta militare, le ambasciate straniere (quelle europee, noialtri) aprono le porte a chi pensa meglio l’esilio che la gabbia. Ovviamente l’ambasciata tricolore è protagonista: dai un traguardo a un italiano, sollevalo dal controllo gerarchico e fagli vedere che non corre solo, e quello trotta fino a quando non chiudono la pista imponendosi per distacco. Siamo fenomeni dell’happy ending, cintura nera di cuore d’oro consentito.
E quindi ecco i dissidenti saltare il muro basso all’angolo cieco e trovare asilo, semplice così, ma rischiavano la ghirba. Il racconto, a tratti comico quindi realisticamente nostro, dice quattro piani di accoglienza, dice italiani brava gente. Il ministero invece se ne fotte dei cileni, Rumor IV, Moro agli Esteri: “Cile chi?”. Però è un altro mondo, c’è margine per i corpi intermedi. Asilo politico, salvacondotto e Italia. Ed ecco l’aggancio all’oggi: stesso Paese, gente diversa.
Celebriamo i migranti cileni del 1973 accolti come si accoglie l’essere umano, niente di più, contro l’Italia di adesso, quella che stiamo conoscendo e che ci sembra un incubo ma non lo è: deficienti che blaterano “prima noi”, vogliono la corsia riservata e si sono messi a fare sistema. O’sistema degli stronzi e degli steward, dell’ultimo banco e dei panchinari, dei senza idee che si fanno le foto da soli. Due italie differenti a cui ci si dovrebbe rassegnare ma a cui alla fine non si riesce davvero a credere fino in fondo. Gli italiani veri sono quelli dell’ambasciata di Santiago, prima o dopo ritorneranno, e se lo dice uno che ha previsto le dimissioni di un papa, tirate un bel sospiro, perché la buona notizia è che quest’uomo non ha mai avuto torto in vita sua.