Scrivere di musica è come ballare di architettura. Questa citazione ormai trita e noiosa – che non si sa neanche bene a chi attribuire con certezza (Frank Zappa? Ma si sospettano anche Thelonious Monk, Elvis Costello e Steve Martin, tra gli altri) – viene usata spesso a sproposito ed è, guarda caso, abusatissima nei commenti sui social, in particolare sotto alle recensioni con le quali si è in disaccordo, tra un insulto e l’altro, magari dopo aver letto solo il titolo. Beh, non staremo qui a confutare un assunto tanto consolidato, ma almeno concedeteci, anzi, concedete a Nicolas Godin la possibilità di scrivere musica partendo dall’architettura. Se infatti gli studi nella Scuola di Architettura di Versailles di Godin hanno influenzato l’immaginario, i riferimenti e la forma canzone degli Air – assieme alle nozioni di matematica del compare Jean-Benoît Dunckel – con il secondo disco da solista questi riferimenti diventano quanto mai espliciti.
Intitolato Concrete and Glass, già nella title track di apertura dice, dopo una lunga e avvolgente intro di synth, «I’m looking for a house, made of concrete and glass». Il parlato è alterato col vocoder à la David Lynch di Crazy Clown Time. L’album è stato anticipato da una bella playlist su Spotify intitolata Architectunes. Tutto ciò potrebbe non voler dire niente, se non fosse lo stesso autore a dirci che il disco è nato partendo proprio dagli studi di architettura. In particolare, raccontando la gestazione dei singoli The Border e The Foundation, ha detto di essersi ispirato rispettivamente a Mies van der Rohe, architetto e designer tedesco appartenente al Movimento Moderno e alla Case Study House #21 di Pierre Koenig, a sua volta esponente del Modernismo americano.
Sembrano solo raffinatezze da intellettuale francese, ma in realtà sono utili per entrare nel contesto estetico e, di conseguenza, sonoro. Perché, appunto, Concrete and Glass è un disco raffinato, ma anche dinamico, leggero, moderno e decisamente meno impacciato e ostico del precedente Contrepoint del 2015, debutto da solista ispirato a Bach non particolarmente riuscito, anzi, decisamente inferiore all’unica altra escursione solista, ovvero la bella colonna sonora della serie tv francese Au service de la France, 40 minuti godibilissimi anche se non all’altezza della musica firmata con gli Air per Virgin Suicides di Sofia Coppola nel lontano 2000.
Costruito su una solida struttura di ritmiche e alleggerito da nuvole abbacinanti di synth, Concrete and Glass è un disco molto più nelle corde e nei trascorsi musicali di Godin. Già dalla seconda traccia è chiaro quanto l’anima pop è dominante e, grazie alle eccezionali collaborazioni, il risultato è ottimo. Le atmosfere sono lounge in Back to Your Heart, interpretata da Kate NV, compositrice, designer e artista russa che fa ancheggiare amabilmente, prima di una virata verso l’introspezione meno pastello di We Forget Love con Kadhja Bonet, cantante californiana che incanta con una interpretazione intensa, fin troppo vicina ai Massive Attack con Elizabeth Fraser, tanto che mi sono dovuto accertare che non si trattasse di uno pseudonimo.
Dicevamo che si tratta di un disco più simile alla matrice degli Air, il che è particolarmente vero in passaggi come Time on My Hands in combutta con Kirin J. Callinan che conferisce al pezzo un’aura 80s da look total white e capelli cotonati. In questa descrizione ci stanno dentro pure i già citati singoli The Foundation (feat. Cola Boyy) e The Border dove torna il vocoder. C’è tempo per una parentesi mezza bossa nova nelle architravi e mezza dream pop nei frontoni (chissà come verrebbe un edificio costruito con questi presupposti) con Catch Yourself Falling insieme a Alexis Taylor, che in un certo senso è forse il pezzo più insipido del disco, ma in realtà passa rapido e indolore.
Se è vero che torna in mente di nuovo Lynch in What Makes Me Think About You e Turn Right Turn Left, soprattutto in quest’ultimo il picco di chill out è evidente, così come i riferimenti alla musica d’ambiente, quella per i famosi aeroporti. Sarebbe bello spingerci a pensare che il titolo possa nascondere un riferimento alla musique concrète e a Philip Glass, ma è probabilmente una forzatura. Poi il disco si chiude con un pezzo intitolato Cité Radiouse e all’improvviso l’idea sembra meno stupida di quel che sembra.
Concrete and Glass è un lavoro maturo, senza sbavature e senza forzature, piacevole da ascoltare e che, per quanto non abbia pezzi sorprendenti, rimane incollato in testa più a lungo del previsto.