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No, Laurel Halo, questa volta no

La producer americana è una spada a manipolare i suoni, ma quando ci mette la voce i suoi dischi perdono di grinta. La recensione di "Dust"

È molto brava Laurel Halo. È brava a manipolare i suoni, a inventarsi situazioni capovolgenti nei suoi pezzi, a tenere molto alta la concentrazione di chi ascolta. Ecco, questa volta lo è stata un po’ meno. Con Dust, l’americana di casa Hyperdub sente l’urgenza di tornare a metterci la voce dopo un paio di album strumentali incredibili. Non che non canti bene, eh, ma pare un peccato sacrificare l’affilata IDM con una voce trattata come un elemento qualsiasi, spezzettato e incollato con criteri randomici solo in apparenza, ma abbastanza per dare all’opera un’aria quasi retrofuturista. Si finisce per fare il verso alla musica concreta che facevano Schaeffer e Stockhausen quasi 70 anni fa. In Moontalk poi spuntano fuori a caso gli anni ‘80, mentre in Who Won? regna il free jazz. Le cose belle alla Laurel Halo ci sono e portano nomi come Syzygy e Like an L, ma nel complesso la nostra sembra non aver capito quale dei suoi background vuole far prevalere e come farli coesistere in armonia.

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