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No, ‘The Gilded Age’ non è la nuova ‘Downton Abbey’

Julian Fellowes, il creatore della più British delle serie, si trasferisce negli States e racconta le lotte di classe nella Manhattan di fine ’800. Ma, nonostante un grande cast, manca qualcosa
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In Downton Abbey, la più nota serie creata da Julian Fellowes, la narrazione era divisa secondo le linee delle classi sociali: al piano nobile c’era la famiglia Crawley, in quello della servitù i suoi fedeli domestici. Nella nuova serie di Fellowes, The Gilded Age (su Sky e NOW dal 21 marzo), ci sono ancora i domestici e i loro ricchi e potenti datori di lavoro, ma la storia è invece divisa secondo una diversa demarcazione di classe: chi ha i soldi da generazioni contro quelli che li hanno appena fatti, con tutto il conflitto che ciò si porta dietro nella New York del 1880. Stavolta la differenza sta fra chi ha sempre avuto patrimonio e posizione sociale e coloro che invece li hanno acquisiti solo di recente, e vogliono farsi strada nel mondo dei primi.

È un tema che, idealmente, riguarda la stessa genesi di The Gilded Age. Fellowes ha trasferito le vite dei suoi altoborghesi d’inizio Novecento dalla PBS alla HBO. Per lunga parte del secolo scorso, la PBS ha rappresentato la forma di televisione più nobile e artisticamente valida, anche se la maggior parte dei suoi prodotti era – vedi la stessa Downton Abbey – d’importazione britannica. In questo secolo, il testimone è stato raccolto dalla HBO: anche se, in anni più recenti, il gigante della pay-tv ha dovuto dividersi onori e premi con i nuovi rivali delle piattaforme streaming, che a loro volta hanno acquisito patrimonio e posizione nel novello scenario audiovisivo. Nel frattempo, la PBS è andata avanti, continuando a produrre validi (e a volte anche di più) titoli, ma difficilmente raggiungendo lo Zeitgest di una volta. (Il successo di Downton Abbey, quando cominciò nel 2011, fu sorprendente perché era da tantissimo tempo che la tv pubblica non distribuiva la serie di cui tutti parlavano.)

In questa età dell’oro della televisione, in cui ci sono tantissime opzioni di fruizione diverse, il passaggio dalla tv pubblica alla pay-tv può sembrare un dettaglio da poco. Ma dietro c’è lo stesso gap che si vede in The Gilded Age: a volte sembra che alla produzione non abbiano dato abbastanza finanziamenti, ma per fortuna recitazione e scrittura sono tali da far dimenticare il problema in molte scene.

Siamo nel 1882, quando le pecore ancora pascolavano a Central Park, e la torcia della Statua della Libertà era ancora esposta a Manhattan perché non c’erano abbastanza soldi per spedirla in Francia e attaccarla al braccio di Lady Liberty, e la città era ancora il regno di quelli che dicevano di essere discendenti delle famiglie arrivate in America con il Mayflower. Se Downton Abbey si svolgeva in una sola casa, qui ce ne sono due, una di fronte all’altra all’angolo tra la 61esima Strada e la Fifth Avenue.

La prima è un classico palazzetto aristocratico abitato dalla vedova Agnes van Rhijn (Christine Baranski) e dalla sorella nubile Ada (Cynthia Nixon). Agnes è una fiera sostenitrice dei valori della classe dominante americana che lasciò l’Inghilterra. L’altra invece è un palazzone più moderno, disegnato secondo il gusto di Bertha Russell (Carrie Coon) e finanziato dal marito George (Morgan Spector), imprenditore nel ramo ferrovie: è il primo passo nel tentativo di Bertha di introdursi nell’alta società di Manhattan. Con ogni mezzo necessario.

Oltre a quel quartetto, del larghissimo gruppo di personaggi principali fanno parte i figli (due di Agnes e due dei Russell), e poi Marian (Louisa Jacobson), la nipote di Agnes rimasta priva di mezzi di sussistenza alla morte del padre, e la sua nuova amica nera Peggy Scott (Denée Benton); i genitori di Peggy (Audra McDonald e John Douglas Thompson); una decina di domestici (molti di loro interpretati da celebri volti del teatro come Michael Cerveris e Deborah Monk); e da tantissime altre figure cruciali della scena sociale (anche in questo caso interpretate da star di Broadway come Kelli O’Hara e Katie Finneran) di cui Bertha Russell vorrebbe diventare amica, se solo loro la lasciassero partecipare alle loro trame.

Tra il vastissimo numero di personaggi, i costumi sfarzosi e il peso della produzione (molti eventi hanno luogo all’aperto, in una New York di fine ’800 sontuosamente ricostruita), la serie ha un’ambizione molto maggiore rispetto a quanto Fellowes non abbia provato a fare con Downton Abbey, ma in parecchi momenti sembra anche molto più impacciata. I domestici, per esempio, non hanno alcun ruolo, ed è difficile tenere il conto di tutte le relazioni e i dissapori che intercorrono tra i vari personaggi.

Il problema principale, però, sta nella difficoltà di Fellowes di far comprendere il divario culturale tra i Russell e le van Rhijn, così come il desiderio di scalata sociale della stessa Bertha. Più Agnes e le sue amiche screditano socialmente i Russell, più la serie fatica a drammatizzare tutto ciò in modo intelligente. In una scena, il fedele maggiordomo di Agnes, Bannister (Simon Jones), fa visita alla casa dei Russell e impartisce alla sua controparte, Church (Jack Gilpin), una lezione su come apparecchiare la tavola secondo la tradizione inglese, e cioè mettendo i bicchieri non su una linea retta ma a mo’ di quadrato. In dettagli come questo si esauriscono tutte le differenze tra una casa e l’altra.

Nel frattempo, Bertha continua ad eludere le domande di George sul suo bisogno d’approvazione da parte di persone che non la vogliono in nessun modo accettare; e lei risponde che ha le sue ragioni, e un piano preciso per portare a segno il suo obiettivo. Il desiderio di far parte di un circolo ristretto di persone che non ti vuole come membro dovrebbe essere un sentimento universale, ma l’unico motivo per cui ci può importare qualcosa della sfida di Bertha è il fatto che Carrie Coon sia una delle migliori attrici in circolazione (chi ha visto The Leftovers lo sa). In un personaggio che potrebbe non avere anima, lei riesce invece a infondere un’umanità che la rende una perdente nonostante il vasto patrimonio famigliare e il modo in cui il marito George lo utilizza (*).

(*) L’atteggiamento da antieroe di George è la caratteristica che più ci aspettiamo dai personaggi delle serie HBO, ma Morgan Spector sembra più a suo agio nelle scene in cui dimostra il suo affetto nei confronti della moglie che in quelle in cui vuole rovinare i suoi rivali (il più delle volte sobillato dalla moglie stessa). In generale, i personaggi maschili di The Gilded Age sono, a livello di scrittura e di interesse, un gradino sotto quelli femminili.

Carrie Coon alias Bertha Russell. Foto: Alison Cohen Rosa/HBO

Per quanto riguarda Christine Baranski, fa di tutto per mettere in scena lo sprezzo naturale con cui la sua Agnes si rivolge alle persone come i Russell, anche se il copione ne fa spesso una macchietta sempre uguale a sé stessa. Si vede lo sforzo che fa per dare spessore al suo ritratto – quando la più progressista Marian si schiera a favore dei Russell, Agnes replica: “Non sono preoccupata dai fatti, purché non interferiscano con le mie idee” – ma il suo personaggio funzionerebbe meglio dentro una vera e propria satira, invece che in questo racconto in stile soap opera dove, di tanto in tanto, sfodera una battuta pungente. (Quanto alle battute di Cynthia Nixon, sono sono così ficcanti: Ada è dolce e reverenziale, laddove invece la sorella è sempre brusca e arrogante; ma è comunque un piacevole cambiamento rispetto ai toni a cui l’ha costretta l’impero HBO: vedi And Just Like That…)

La domanda sul perché gli spettatori dovrebbero appassionarsi a passioni e bisticci tra personaggi incredibilmente ricchi è uno dei temi con cui la tv ha fatto i conti per decenni. Titoli recenti come Succession e Billions hanno risposto con un livello di irriverenza e di divertimento tali da far diventare irrilevante la mancanza di qualcuno per cui tifare, mentre Downton Abbey ha perfettamente spartito il tempo in scena tra servi e padroni, ritraendo i secondi come dei datori di lavoro di buon cuore. The Gilded Age ha qualcosa di tutti questi “colleghi” – Agnes è sempre molto umana quando si relaziona a Peggy, che ha assunto come segretaria – ma non è abbastanza sagace per compensare i difetti negli altri campi.

Parte del problema è che gli americani in generale non hanno mai avuto l’ossessione delle classi sociali: se mai, quella dell’etnia. Fellowes, molto intelligentemente, dedica ampio spazio all’ingresso di Peggy in casa van Rhijn, al suo desiderio di costruirsi una carriera come giornalista in barba agli ostacoli generati dal colore della pelle e dal genere sessuale, alla progressiva distanza dalla sua famiglia, anch’essa parte della media borghesia. Il fatto che, negli Stati Uniti, l’etnia superi la classe sociale è messo in scena con una consapevolezza assai brillante ed efficace: Peggy è derisa o liquidata anche da persone di classi inferiori alla sua. Ma, ogni volta che da Peggy passiamo a qualsiasi altro personaggio principale della serie, il dramma si fa immediatamente più esile, nonostante la statura degli attori e delle loro performance.

Louisa Jacobson e Denée Benton e Peggy Scott. Foto: Alison Cohen Rosa/HBO

The Gilded Age era stata inizialmente sviluppata per la NBC, e quando il capo di allora, Robert Greenblatt, è passato alla HBO se l’è portata con sé come uno dei progetti a lui più cari. Fellowes non ne ha approfittato più di tanto: al di là di una breve scena di nudo, non c’è nulla che non potrebbe tranquillamente stare su una rete generalista. Gli episodi sono più lunghi – la puntata pilota dura 80 minuti, le altre arrivano quasi tutte ai 60 – e la ricostruzione d’epoca si avvicina più a quella di produzioni come Rome o Deadwood che a quello a cui la NBC ci ha abituati. Ma, nell’insieme, Fellowes continua a raccontare storie come faceva in Downton Abbey, tanto che molti dei nuovi personaggi sembrano uno specchio di quelli della serie precedente. (Agnes con la sua lingua affilatissima non può non farci tornare in mente la Lady Violet di Maggie Smith, mentre suo figlio Oscar, interpretato da Blake Ritson, ha parecchio in comune col tormentato vice-maggiordomo Thomas Barrow.)

Anche il regista Michael Engler viene da Downton Abbey, e continua a riprendere i personaggi da dietro, mentre vanno da una casa principesca all’altra. I fan di Downton Abbey – una serie amatissima in tutto il mondo, che ha prodotto anche due film per il grande schermo – probabilmente non resteranno delusi. Quanto a me, lo devo confessare: sono sempre stato un agnostico nei confronti della serie precedente; e ho sempre preferito le storie dei domestici a quelle dei loro padroni. Ma nella struttura della serie precedente di Fellowes c’era un’elegante semplicità, mentre qui si avverte un ridondantissimo caos. Perciò, mi dico, forse anche i puristi di Downton Abbey guarderanno The Gilded Age nel modo in cui Bannister osserva i bicchieri posti disordinatamente sulla tavola dei Russell: come qualcosa di molto bello, ma che non sembra al posto giusto. Almeno per un occhio esperto.

Da Rolling Stone USA

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