C’è un importante messaggio sotteso alla nuova versione di Non aprite quella porta, ed è un messaggio che chiunque dovrebbe scolpire nella pietra con qualsiasi strumento abbia in mano, meccanico oppure no. E non è che gli hipster dovrebbero levarsi dalla testa l’idea di poter gentrificare le città fantasma dei più remoti angoli del Texas, anche quando tra loro c’è un famoso chef che vorrebbe ridare vita a un villaggio abbandonato con il suo bistrot per turisti gourmet. E non è nemmeno quello che insegna a mantenere le distanze dal bifolco incontrato alla stazione di benzina anche quando pensi che il suo furgone sia, come dicono gli psicologi, una forma di sovracompensazione: potrebbe diventare un tuo alleato, quando le cose si metteranno male. E non è neanche quello che vuole che tu abbia tutte le prove necessarie prima di sbattere fuori una vecchia signora dall’orfanotrofio che ha gestito per decenni: il suo cuore potrebbe non reggere e, qualsiasi cosa le potrà accadere, di sicuro farà arrabbiare colui che lei chiama “il bambino perduto”.
Il messaggio da tenere a mente non è neppure quello di avere sempre una sega elettrica nascosta in camera da letto, da usare in futuro contro qualche ventenne fastidioso. Non è quello che dice che le migliori maschere sono fatte con la pelle di qualche parente morto di recente. E, infine, nemmeno il motto che potrebbe suonare così: “Siamo arrivati, abbiamo fatto una carneficina, abbiamo vinto”. No, il messaggio è qualcosa che è stato evidente per molto tempo, e che il nuovo revival del crudo proto-slasher firmato da Tobe Hooper nel 1974 dimostra per l’ennesima volta. Il messaggio è: Giù. Le mani. Dai classici. Dell’orrore.
In altre parole: smettetela di girare questi brutti remake. Piantatela di dar loro una sfilza infinita di sequel, o prequel, o requel. Evitate di venderci delle improbabili origin story sull’Uomo Nero di turno. Finitela di scrivere “un nuovo inizio” o “una nuova generazione” sotto il titolo – ogni generazione di teenager potrebbe anche meritare il suo personalissimo incontro con la “hall of fame” dei serial killer, ma usare sangue fresco (letteralmente) per il rebranding di certi classici non aggiunge nulla di nuovo all’immaginario. Smettetela, soprattutto, di richiamare le vecchie star del genere per autocitazioni e cameo del tutto inutili; per ogni intelligente rivisitazione di cult passati (vedi l’Halloween di David Gordon Green uscito nel 2018), ci sono decine di esempi di operazioni in cui ritrovare facce e atmosfere note è un puro esercizio di fan service (e, in questo senso, lo stesso David Gordon Green ha fallito con il più recente Halloween Kills).
Smettetela di pensare che citare altri film horror oltre a quello da cui state già rubando a piene mani vi renda più intelligenti (in questa nuova versione di Non aprite quella porta troverete anche riferimenti all’Halloween originale, a Shining e a mille altri titoli che avete consumato su VHS). Smettetela di sfruttare la nostalgia dei fan e la fama di certi marchi solo perché siete pigri – o perché non siete in grado di creare una saga originale che sia all’altezza di quei classici.
Passa la voglia di scrivere qualsiasi cosa sulla versione che il regista David Blue Garcia dà del villain che tutti conosciamo e del suo migliore amico: la sega elettrica Black & Decker. Basta dire che c’è un nuovo Non aprite quella porta in circolazione, e che potrebbe catturare l’attenzione di qualche spettatore: noi speriamo non interessi a nessuno. Ma se provassimo a usare questo obbrobrio come una lezione, potremmo guadagnarci qualcosa. Prima ancora che iniziasse l’era cinematografica che stiamo vivendo – quella, cioè, dello strapotere dei franchise – gli horror venivano già realizzati in serie: basti vedere il numero di capitoli dedicati ai vari Freddy Krueger, Jason Voorhees, Michael Myers & Co. Il che significava che poteva accadere qualsiasi cosa: dal farli risorgere nell’episodio successivo allo spedirli dritti nello spazio. L’idea è sempre stata: aggiungiamo un numero al titolo (e un sottotitolo improbabile) e andrà comunque bene, anche se la storia sarà ridicola, se gli omicidi non avranno ispirazione alcuna, se la realizzazione sarà totalmente scadente.
Anche la leggendaria figura al centro di Non aprite quella porta ha fatto la stessa fine del genere che l’ha resa celebre. Per qualche motivo – forse perché l’opera seminale del ’74 occupa un posto speciale nel cuore di molti (il mio compreso) e sembra ancora parlare alle nostre paure primarie – questa rilettura di quella pietra miliare sembra il solito plot “assassino contro povera fanciulla” e niente di più. Per amore di Leatherface, lasciate stare questa carneficina una volta per tutte. È tempo di deporre la sega elettrica e guardare avanti.