Lucinda Williams, la recensione di 'Good Souls Better Angels' | Rolling Stone Italia
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Non dateci slogan, dateci verità, dateci il blues di Lucinda Williams

Ci voleva la voce volgare e popolaresca della veterana dello storytelling americano per risollevarci il morale in questi giorni strani. Non sussurrando rassicurazioni, ma raccontando storie crude

Lucinda Williams

Foto: Danny Clinch

Ci voleva la voce volgare e popolaresca di Lucinda Williams, ci voleva il suo timbro alcolico e sputtanato per risollevarci il morale in questi giorni strani. In Italia la si conosce poco, negli Stati Uniti è più di una rocker di culto, è una storyteller amatissima per tanti buoni motivi, non ultimo il modo crudo in cui canta di vita e di morte. Non è una che racconta favole. In Good Souls Better Angels dipinge pezzi di mondo in tutta la loro problematica verità e lo fa attingendo da una delle più antiche musiche americane, il blues, con un’intensità che ha pochi pari nel panorama contemporaneo.

Williams non canta di dignità della donna con tono moralizzante. Descrive una scena vissuta in prima persona come quella di Wakin’ Up: l’uomo che si fa di coca ed eroina che la sbatte per terra, la prende a calci e poi la vuole baciare e poi le vuole pisciare in faccia – si sarà capito, la signora non è una che si autocensura. Ora però lui giura che è pulito e lei non sa se crederci e nemmeno se dare la colpa delle botte a lui o ai demoni che ha dentro. Williams non evoca il MeToo e in particolare il caso di Ryan Adams per impartire lezioni. Lo racconta in tutta la sua problematicità. Nell’amara Shadows & Doubts cerca d’indovinare cosa passa per la testa incasinata dell’amico e descrive la velocità con cui è stato sottoposto al giudizio dei social. In buona parte di Good Souls Better Angels non ci sono il bianco e il nero, il bene e il male schierati su due fronti opposti. Ci sono uomini e donne che sbagliano e arrancano e fanno cose orribili.

E poi ci sono le canzoni che puntano il dito contro qualcosa, contro qualcuno, un po’ come faceva un tempo Dylan, modello dichiarato per Williams. È progressismo sudista. Il punto di vista politico è filtrato dal linguaggio del blues, che era sì una musica profana, ma utilizza immagini ereditate dallo spiritual. E così, Man Without a Soul descrive un governante bugiardo e avido – sì, Donald Trump – nei termini di luce/oscurità. Nell’apocalittica Big Rotator c’è un dio indifferente che si limita a far girare il mondo in cui i colpevoli sono vendicati e gli innocenti incarcerati. In Bad News Blues si canta il bombardamento di notizie perlopiù cattive a cui siamo sottoposti. C’è molto blues anche nella musica. Non come schema replicato da decenni a volte in mondo meccanico. Quello di Lucinda Williams è un blues che ti prende lo stomaco ed è in parti uguali disperato, incazzato ed esaltante.

È un miracolo – esageriamo – che nel 2020 un sound basato sostanzialmente su basso, chitarra e batteria sia tanto comunicativo e fremente, per di più nel disco di una donna che date la lunga carriera e l’età, 67 anni, si presume abbia il meglio alle spalle. Molto è suonato dal vivo con strumenti vintage e la musica risulta grezza, diretta, senza filtri. È come se una band garage rock suonasse del blues dopo un funerale, col groppo in gola e una gran voglia di farsi una bevuta. E poi c’è la voce di Williams che non è mai stata così presente, forte ed evocativa, nemmeno in quello che è considerato suo disco migliore, Car Wheels on a Gravel Road.

Voci così hanno un vantaggio: danno l’impressione di non volerti sedurre o fregare, ma di voler raccontare un storia autentica. Come quando in Big Black Train Williams canta di voler combattere la depressione e lo fa con un eloquio instabile e fragile, e davvero non sai se ce la farà o se soccomberà. Non stupisce che l’album si chiuda con una specie di preghiera cantata con voce meravigliosamente stropicciata: “Affidami alle mani dei santi, mettimi con le anime buone, con gli angeli migliori, con chi può darmi forza nei momenti di debolezza”.

Al centro delle storie di Good Souls Better Angels ci sono individui problematici, incasinati, depressi e fottuti, a tanto così dal crollare. Lucinda Williams ci descrive sull’orlo del precipizio, a rischio caduta o pronti persino a buttarci di sotto per farla finita. È un’immagine drammatica, ma forse è meno artificiosa dell’andrà tutto bene che continuiamo a ripeterci. Presi dall’allucinazione collettiva per cui ne usciremo migliori, quest’album bello, sguaiato e fuori moda ci dice che non è vero per niente. Lo aspettavamo un disco così. Non dateci slogan. Dateci qualcosa di vero, di conflittuale, di sconveniente. Non rassicurateci. Dateci la realtà.

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