Fate un elenco di tutti quelli che scrivevano grandi canzoni nel 1958. Ora provate a farne uno di quelli che continuano a scrivere pezzi geniali nel 2018 e ci troverete un solo nome in comune tra i due insiemi: Paul McCartney. Cinquantacinque anni dopo Love Me Do e raggiunto uno status leggendario ormai inattaccabile, Macca continua ad aggiungere gemme su gemme al suo repertorio, senza avere più niente da provare al mondo oltre al fatto di essere l’unico genio rimasto in grado di farlo.
Egypt Station, l’album che segna il suo ritorno dopo cinque anni, realizzato in collaborazione con il mago del pop Greg Kurstin, è una raccolta di canzoni incredibilmente eccentrica, nello stesso stile del suo disco solista Ram del 1971. Gli ultimi quindici anni sono stati gloriosi per i fan di Paul McCartney. A partire da Chaos and Creation in the Backyard del 2005, prodotto da Nigel Godrich, Paul è entrato in una fase molto produttiva, e nel tempo libero ha anche dimostrato di essere uno dei migliori performer dal vivo sulla faccia della terra.
Egypt Station comincia e finisce con il suono ambient di una stazione e scorre via ben strutturato e coerente, come se fosse una lunga corsa a bordo di un treno cosmico. Cinque anni dopo New del 2013, in cui aveva sperimentato con la psichedelica Queenie Eye, una delle sue canzoni più assurde e divertenti di sempre (lui stesso ha detto che sarebbe stato uno dei pezzi migliori di un tour di Magical Mistery Tour), Paul mette insieme brani acustici sognanti come Confidante e ballad intimiste per piano e voce come Do it Now, e passa la maggior parte del disco interpretando personaggi ed esprimendo sentimenti che nessuno si aspetterebbe da lui. Per esempio I Don’t Know, una ballad sull’età che avanza e i dubbi che si porta dietro (“Ci sono corvi fuori dalla mia finestra, cani alla porta di casa / Non so come andare avanti”).
Ma nel disco Paul mette in mostra anche la sua passione per le stupide canzoni d’amore come Come On to Me o la spiritosissima Fuh You, che praticamente è il seguito della sua canzone più sfacciatamente erotica Hi, Hi, Hi, incisa dai Wings nel 1972 e con la sua ironica citazione beatlesiana “I just wanna fuh you” fa sembrare discreta persino Why Don’t We Do It on the Road. Ma il capolavoro in Egypt Station è Dominoes, uno di quei pezzi di Paul McCartney al tempo stesso enigmatici ed emotivamente diretti.
Un ritornello accompagnato da una chitarra acustica, dai toni un po’ inquietanti, che starebbe bene anche sul White Album, un assolo di chitarra al contrario e una disarmante strofa di addio: “È stato uno spasso”. Uno dei suoi momenti solisti più potenti, con l’inconfondibile tocco Paul McCartney, un fattore che tutti provano a copiare senza mai riuscirci, ma che suona sempre nuovo e innovativo.
In tutto l’album c’è una sorta di spirito giocoso. Back in Brazil è una divagazione sorprendente, ma ben riuscita, nel mondo dell’electro-samba e Do It Now esprime lo stesso sentimento dell’elegia per John Lennon Here Today: il vecchio e saggio Paul riflette sulle soluzioni che ci si ritrova a cercare quando si realizza che la vita è breve. Anche il pezzo più esplicitamente di protesta, dai toni anti-Trump, Despite Repeated Warnings, una minisuite lunga sette minuti con qualche punto in comune con Uncle Albert/Admiral Halsey presente in Ram, mantiene il suo tocco. Perché anche quando è arrabbiato per l’apocalisse politica incombente, Paul rimane sempre Paul. Come è giusto che sia. E come suggerisce questo Egypt Station, lo sarà per sempre.