Nella lotteria delle recensioni, al nome Pet Shop Boys mi sono sentita chiamata in causa. Alla lotteria non dovrei nemmeno partecipare, eppure il mio entusiasmo è stato accolto con altrettanto (sospetto) entusiasmo. Riflettendoci brevemente, avevo decifrato i sentimenti di entrambe le parti: mentre io pensavo a Paninaro, West End Girls e tutto Introspective, loro pensavano ai pezzi malinconici e “spompati” di Elysium o alla rincorsa al contemporaneo che era Electric del 2013 – un album che, per gli accenni dubstep, supera a fatica la prova del tempo. Fortunatamente avevo ragione io: Super è un album che ha un piede nella scena house ballroom dei primi anni ’90 (in pezzi come Groovy o Burn) e un altro nell’Eurodance in tutte le sue sfumature, che nell’album partono dai synth di Twenty-Something e finiscono nella cassa di Pazzo! e Inner Sanctum. Tutto questo riesce a non risultare anacronistico grazie a un’attitudine “fedeli a se stessi” e all’accompagnamento di Stuart Price, che per questo album sembra lasciar fare più ai suoi celebri assistiti rispetto a quanto non sia stato per Electric. Ci sono brani incredibilmente “Pet Shop Boys” (una definizione che ormai non ha bisogno di spiegazioni), come l’inno The Pop Kids, e altri che si sposano bene con l’onda di ritorno dell’house anni 2000, come Say It to Me e Undertow. Avete presente l’inizio di It’s a Sin – quattro battute, entra l’organo con un conto alla rovescia, attacca un coro da chiesa, poi tutto esplode e partono le braccia verso l’alto? Trent’anni dopo, i Pet Shop Boys non hanno più voglia di preliminari, Super parte con le braccia in alto e resta così fino alla fine (giusto un attimo di pausa su Sad Robot World per far riprendere la circolazione), a dimostrazione che non di soli vecchi successi vive una band decennale.
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