A rileggersi a sette anni di distanza le recensioni di Grace/Wasteland, il primo disco da solista di Pete Doherty, fa sorridere l’ansia un po’ scettica e fustigatrice dei critici, come a dire: sì, okay, “sesso, droghe & Kate Moss”, ma vediamo come se la cava il ragazzetto oltre l’egomania da rockstar debosciata. E appaiono lontanissimi quei tempi, che viene quasi da rimpiangerli, perché sembra esaurita anche quella possibilità di giocare allegramente con una finzione di passato senza intellettualizzarla troppo (non soltanto il garage rock revival dei vari Libertines, Strokes e compagnia bella, ma anche le coppie maledette alla Pete and Kate) e però mi chiedo: bene, ora che ce ne facciamo di tutta questa annoiata consapevolezza? Che c’era di male a fare le rockstar in canottiera e cappello e farsi di coca e farsi arrestare e finire sulle copertine scandalistiche e dispensare un po’ di gossip e tumulto passionale? Da quando è che le cose sono cominciate a essere o “fuori tempo massimo” o dichiaratamente nostalgiche, e quindi in entrambi i casi non abbastanza vere? Hamburg Demonstrations, il nuovo album di Pete Doherty, non sembra chiedersi se esista un “tempo massimo”, togliendosi dall’impaccio di starne dentro o fuori e ridefinendo la possibilità di un nichilismo da romantici, con parole d’amore così semplici e assolutistiche (“I don’t love anyone / but you are not just anyone”) che potreste ritrovarvele sul muro di fronte casa (e magari!). Rispetto a Graceland/Wasteland, Doherty rielabora le sue strategie da crooner, abbandonando un manierismo da illuminazione troppo soffusa, e in certi pezzi (Flags from the Old Regime, il suo tributo a Amy Winehouse) potrebbe far pensare più a uno Stephen Malkmus sentimentale. Molto bello il duetto con Suzie Martin, Bird Cage, già apparso – in versione un po’ più sporca – nella colonna sonora di Confession of a Child of the Century (se anche foste fan di Doherty o di Charlotte Gainsbourg, il film potete tranquillamente risparmiarvelo).
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