Nel 2017 il pungente Stranger in the Alps ci ha fatto conoscere una cantautrice triste e allo stesso tempo spassosa. Phoebe Bridgers era la versione millennial di Warren Zevon: canta di sexting e non di astinenza dall’eroina, ma condivide col cantautore anni ’70 la capacità di mettere in musica la propria morte e l’eterno declino di Los Angeles. «Qui non è cambiato nulla», cantava Bridgers nel debutto, «L.A. è a posto».
Come Zevon, anche lei ha un insolito talento per la scrittura pop e le melodie della tradizione americana, un’abilità che ha rifinito per tre anni, finché non è stato chiaro che era capace di tutto. Nei pezzi più prodotti (Motion Sickness), è facile immaginarla alla guida di un gruppo synth pop; nei Better Oblivion Community Center, la band che ha fondato con Conor Oberst, maneggia alla perfezione il roots rock; nei Boygenius, il gruppo con Julien Baker e Lucy Dacus, scrive grunge pop e folk pastorale; nelle collaborazioni con superstar come National e 1975, interpreta il ruolo della popstar alt rock.
Ecco perché l’elemento più radicale di Punisher, il suo nuovo e atteso album, è proprio il fatto che Phoebe Bridgers vuole solo restare se stessa. A un primo sguardo il disco somiglia al primo: 11 canzoni, quasi tutte tristi e scritte splendidamente, su promesse tradite, amore disperato e autodistruttivo, timidi tentativi di rinascita. Alla fine del primo ritornello di Kyoto, l’unico momento uptempo di tutto il disco, si lascia andare a un giocoso e poco convincente “Woo!”, come a mettere in chiaro che è al massimo una rocker riluttante.
Se gran parte delle sue canzoni si presentano come semplice emo folk minimale, le melodie sembrano più studiate (ascoltate la ballata inquietante Halloween, piena di tocchi anni ’50) e radicate nelle sue influenze, da Joan Didion a Jackson Browne, fino a John Prine e Joni Mitchell. Bridges dà il meglio in Chinese Satellite, il centro concettuale del disco che parla di «jogging e alieni». Nella canzone dice che non riesce a togliersi dalla testa «le solite tre canzoni». «Vorrei averle scritte io», canta sussurrando, «ma non è così, quindi ho imparato le parole».
Punisher è il disco di un’autrice più sicura di sé rispetto al precedente e il merito è tutto della scrittura più affilata e consapevole. I suoi versi sono più pungenti e brutali, spesso sono rivolti a se stessa («Sono una pessima bugiarda, con il complesso del salvatore»), o timidi e stupefacenti: «Se sei un’opera d’arte, forse mi sono avvicinata troppo», canta nella nervosa I.C.U. «Riesco a vedere le pennellate».
Anche Punisher è pieno di pennellate fresche. L’album, registrato sostanzialmente con gli amici di L.A. di Bridgers, a cui si sono aggiunti musicisti West Coast di serie A come Jim Keltner e Blake Mills, espande in modo sottile i suoni e la produzione del debutto, con cui condivide le fondamenta. Nei crediti si legge di strumenti assurdi come l’optigan, la celesta e l’hang, e canzoni come la title track e Savior Complex assomigliano a un certo cantautorato pop leggermente orchestrato; se Strangers attingeva a piene mani dalle prime canzoni di Elliott Smith, Punisher sembra più vicino al pop massimalista che il songwriter scriveva verso la fine della carriera.
Bridgers aspetta le ultime due canzoni in scaletta per aggiungere qualche elemento di novità. Il folk pastorale e il banjo di Graceland Too rappresentano un momento di pura e semplice bellezza, una canzone che racconta la storia di un giovane viaggiatore che muove i primi passi dopo un crollo psicologico. Il collage del crescendo di I Know the End, invece, conclude Punisher con una scossa inaspettata di pop soffocante e distopico: Bridgers racconta l’America dei centri commerciali, dei macelli e delle slot machine che vede dal finestrino del tour bus.
Non sappiamo se in futuro Bridgers proverà a dare un senso al futuro che aspetta la sua generazione, o se troverà altri modi per mitizzare la sua tristezza. Se c’è una cosa che Punisher dimostra è che lei è pronta a tutto. «In ogni caso, non siamo soli», canta sulle ultime note dell’album. «Troverò un posto nuovo da cui arrivare».