Pixies - Head Carrier | Rolling Stone Italia
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Pixies – Head Carrier

Leggi la recensione del disco dei Pixies su Rollingstone.it

I Pixies sono la matrice, lo stampino che ha modellato una bella fetta di alternative rock statunitense. È chiaro oggi più di ieri, più di quando Kurt Cobain li inseriva tra le fonti d’ispirazione fondamentali per il suo gruppo: il post-punk ingentilito; i rimasugli anni ’60; il gioco di tensioni, di vuoti e pieni tra strofa e ritornello; i testi arguti e stralunati da nerd furbetti; i finti assoli di due note; la bonomia “all american” rassicurante e tutti gli altri marchi di fabbrica che abbiamo poi visto e riconosciuto in altri gruppi. Probabilmente non c’è mai stato nulla di sostanzialmente rivoluzionario nella formula, d’accordo, ma era come un cocktail con tre ingredienti: quando è ben fatto, ti stampa comunque un sorriso beato in faccia. Tra l’altro, hanno beneficiato relativamente poco dell’attenzione che li circondava, perché si sono sciolti nel 1993, anno in cui l’onda lunga del grunge si abbatteva sul pianeta e le case discografiche si agitavano a destra e a manca alla ricerca di nuove galline dalle uova d’oro. Si riuniranno nel 2003 per andare in tour e, al secondo album della nuova fase di vita dopo Indie Cindy (2013), è di nuovo assente la (fondamentale) bassista Kim Deal. Cos’altro manca a Head Carrier? Difficile a dirsi: a parte la palese insipienza di tracce come Classic Masher, che sarebbe una sigla perfetta per un telefilm amarcord sui “favolosi anni ’90”, ascoltare questo disco è come intercettare una fotografia di un amore delle superiori: hai familiarità con i tratti e la postura, ti torna in mente qualche episodio buffo, avete vissuto insieme e provi tenerezza per il sorriso uguale a quello di una volta, ma resisti senza rammarico alla tentazione di inviare un messaggio.

L'intervista è stata pubblicata su Rolling Stone di ottobre. Potete leggere l'edizione digitale della rivista, basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.
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I Pixies sono la matrice, lo stampino che ha modellato una bella fetta di alternative rock statunitense. È chiaro oggi più di ieri, più di quando Kurt Cobain li inseriva tra le fonti d’ispirazione fondamentali per il suo gruppo: il post-punk ingentilito; i rimasugli anni ’60; il gioco di tensioni, di vuoti e pieni tra strofa e ritornello; i testi arguti e stralunati da nerd furbetti; i finti assoli di due note; la bonomia “all american” rassicurante e tutti gli altri marchi di fabbrica che abbiamo poi visto e riconosciuto in altri gruppi. Probabilmente non c’è mai stato nulla di sostanzialmente rivoluzionario nella formula, d’accordo, ma era come un cocktail con tre ingredienti: quando è ben fatto, ti stampa comunque un sorriso beato in faccia. Tra l’altro, hanno beneficiato relativamente poco dell’attenzione che li circondava, perché si sono sciolti nel 1993, anno in cui l’onda lunga del grunge si abbatteva sul pianeta e le case discografiche si agitavano a destra e a manca alla ricerca di nuove galline dalle uova d’oro. Si riuniranno nel 2003 per andare in tour e, al secondo album della nuova fase di vita dopo Indie Cindy (2013), è di nuovo assente la (fondamentale) bassista Kim Deal. Cos’altro manca a Head Carrier? Difficile a dirsi: a parte la palese insipienza di tracce come Classic Masher, che sarebbe una sigla perfetta per un telefilm amarcord sui “favolosi anni ’90”, ascoltare questo disco è come intercettare una fotografia di un amore delle superiori: hai familiarità con i tratti e la postura, ti torna in mente qualche episodio buffo, avete vissuto insieme e provi tenerezza per il sorriso uguale a quello di una volta, ma resisti senza rammarico alla tentazione di inviare un messaggio.

L’intervista è stata pubblicata su Rolling Stone di ottobre.
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