Il primo vero album di Pop X – la next big thing italiana dopo I Cani e Calcutta – comincia con la svagatezza del Soggetto già provata nell’Hegel di Battisti (“Nel cielo splende l’aereonautica / nel cuore ho l’ano di una bambola”), e finisce come uno Schopenauer caricato male su Youporn: in Lupi, i desideri dell’animale che è in noi dai tempi delle fiabe verso una “sorellina” sono resi incomprensibili dai rigurgiti dell’autotune. Trentenne trentino, Pop X evoca l’enigma e la finzione numero uno della canzonetta (post)industriale: chi (X) parla nelle canzoni (pop)? E a chi parlano le canzoni pop? X. È Toto Cutugno che canta di “un’amore, un amore al caffè” (in Madama Dorè)? È Alvaro Soler oppure Enrique Iglesias che invita i ragazzini a “bailar con migo” in Dens? Chi si agita in “La pubblicità mi fa girare i coglioni”, un Vasco Rossi cyborg? E noi che ascoltiamo, chi siamo esattamente? Nostalgici? Ragazzin(e)? Cyborg? La parola che Pop X pronuncia di più nelle canzoni è “frocio”. A cominciare da un pezzo intitolato Froci della Nike (già una mezza hit nei concerti). “Frocio per” si può tradurre come qualcuno che trasforma il desiderio nel linguaggio in linguaggio del desiderio. Finge tutto perché non finge nulla, il suo pubblico è se stesso. L’enigma di Pop X non è ritrovare il segreto della sconvolgente brillantezza di Alberto Camerini, degli 883 e delle antiche sigle dei cartoon giapponesi, nostalgia di un “Io” quale che sia, ma neppure svicolare le trappole del cantautore, ma costruirsi come un personaggio vischioso, poco raccomandabile: uno al quale affidare le proprie emozioni e sentimenti sia rischioso tipo carta di credito su internet.
Musicista elettronico colto venuto su nell’inconscio a cielo aperto della Rete, raffinato esteta del suono dei preset della tastiera (proprio come un musicista di matrimoni egiziano o vaporwave o Pcmusic), Pop X non è un esercizio di stile. Non dovrebbe. Quasi mai lo è. E se da qualche parte ci casca, allora è in peccato mortale: il disco è tutto da buttare.