“Per la prima volta nella Storia americana, pavoneggiarsi è considerata una bella cosa”, dice Dawson, o meglio James Van Der Beek, nei panni del braccio destro di Trump, mentre si fa una striscia di coca. “Dio benedica Ronald Reagan”, aggiunge.
Siamo negli USA degli anni ’80, nella New York della prima, lussuosissima era Trump, quella in cui The Donald faceva “solo” l’imprenditore. D’altra parte Pose è un tentativo di comprendere meglio il presente, riesaminando il decennio come fosse un’origin story. Ma tycoon e soci servono quasi più da contesto: al centro c’è la scena chiassosa e luccicante dei drag ball, quella che è arrivata al grande pubblico grazie a Vogue di Madonna e al documentario Paris Is Burning. Attraverso sfide competitive che puntano tutto su attitudine, outfit da favola e abilità di ballo, questi “guerrieri” della passerella gay e transgender – neri e ispanici – rivendicano gli spazi sociali da cui la società maschilista e bianca li ha esclusi.
Appariscenti e spavaldi, ma anche emarginati e terrorizzati dall’epidemia di HIV, raccolti in famiglie molto particolari – le “house” – e alla ricerca di sé. Pose è la serie più sfavillante e sessualmente vivace che Ryan Murphy abbia creato finora, eppure è anche la più sobria e riflessiva, nel modo in cui decide di proteggere i protagonisti, privilegiando un approccio senza filtri. E pure quando usa luoghi comuni, come l’audizione alla scuola di danza stile Flashdance, il cliché si trasforma in qualcosa di nuovo e potente. Perché la posta in gioco è molto più alta.