Nel 2012, Matthew Teague ha scoperto che sua moglie Nicole sarebbe morta: le era stato diagnosticato un cancro alle ovaie; quando il chirurgo provò ad asportare il tumore, scoprì che ormai si era diffuso ovunque. Matthew era un giornalista dell’Atlantic. Nicole faceva l’attrice, quando i due si erano conosciuti a New Orleans. E sempre a New Orleans lei aveva conosciuto Dane. Dopo alcuni imbarazzi iniziali – lui le aveva chiesto di uscire non sapendo che la ragazza era già sposata – i tre sono diventati amici carissimi.
Nel corso degli anni, Dane si sarebbe ritrovato a prendersi cura delle loro figlie quando Matt era impegnato in trasferte all’estero. Così, quando a Nicole è stato comunicato che le sarebbe rimasto più o meno un anno di vita, l’amico di famiglia non ci ha pensato un attimo: ha mollato il lavoro, si è trasferito a casa loro e ha fatto di tutto per dare una mano. Ci vuole una vita per aiutare una famiglia che sta per affrontare la più terribile delle perdite. O, quantomeno, un amico saldo che sappia starti accanto nel bene e nel male, nella salute e nella malattia.
Tratto dalla vera storia di Teague – e dal suo premiatissimo articolo autobiografico The Friend: Love Is Not a Big Enough Word, scritto per Esquire – L’amico del cuore (disponibile su Amazon Prime Video) prova a raccontare questa parabola con un approccio da film strappalacrime vecchia maniera e un cast di star. Questi elementi bastano da soli a stuzzicare il cinismo di un qualsivoglia spettatore (e, ancora di più, dei critici di professione).
Il fatto è che questa traduzione di una “storia vera” in un prodotto di finzione e intrattenimento non fa mai l’effetto del polpettone melenso, e il merito va sia agli attori sia alla regista Gabriela Cowperthwaite, nota finora soprattutto per Blackfish, il documentario del 2013 contro la caccia alle balene. Certo, ci sono degli assalti frontali che mirano dritti alle nostre emozioni, ed è tutto quello che ti aspetti in un film come questo. Ma c’è soprattutto il tentativo di mostrare sia il brutto che il bello di questa storia con assoluta dignità, misura e buongusto, soprattutto nei momenti più inaspettati. Non viene mai risparmiato il dolore che provano i Teague e il membro più stretto della loro famiglia allargata, ma non vengono mai usati toni da soap opera. L’equilibrio tra i due poli opposti di questa storia è davvero sorprendente.
Ti vengono riconsegnate tutta la sofferenza e la pietà presenti nell’esperienza di Matthew e Nicole, e della loro immensa fatica nel sopportare questa malattia terminale. Sono bravissimi Casey Affleck in versione “mi chiudo nel mio dolore” (non è una replica esatta della sua performance da Oscar in Manchester by the Sea, ma ci siamo vicini) e Dakota Johnson, che non esagera mai nel mettere in scena una donna gravemente malata. E ti vengono mostrati tutti gli aspetti della loro vita insieme, dai più spinosi (a un certo punto si fa menzione a un’amante) alla felicità provata prima che il tempo iniziasse a scadere.
Per quanto riguarda Dane, scegliere Jason Segel per interpretare il ruolo dell’amico che farebbe qualsiasi cosa – dal far sopprimere il cane di casa al preparare il pranzo alle bambine – si rivela la vera mossa vincente. Segel è un attore che eccelle nei personaggi che mandano tutto a puttane, e anche qui ti fa capire che questo tipo non ha la vita esattamente a posto. Anche quando la sceneggiatura di Brad Ingelsby lo incoraggia a vestire i panni del santo, Segel sembra più interessato a non mostrare la sua aureola: o, se mai, a mostrare quanto la sua aureola avrebbe bisogno di una bella lucidata.
Non si può accusare nessuno dei tre protagonisti di portare L’amico del cuore nei territori del più bieco sentimentalismo, né certe sequenze sdolcinate che sembrano andare un po’ fuori tema (siamo pazzi di Gwendoline Christie, ma sarebbe stato meglio tagliare l’episodio con la camminatrice tedesca da lei interpretata e Segel). Perché c’è sempre qualcosa – l’uso inaspettato ed efficace di Going to California dei Led Zeppelin come sottofondo di una scena durissima; un dialogo che evita il pathos più spudorato in cambio di sfumature più complesse – che permette al film di non diventare mai un drammone emotivamente pornografico. L’amico del cuore fa sempre affidamento sul fatto che la storia in sé sia sufficiente, e fa di tutto per non forzare le risate o le lacrime nello spettatore (e per non dare lezioni di vita).
Viviamo in una società che fa ancora fatica ad affrontare la morte, ci hanno insegnato a usare un lessico ben preciso quando dobbiamo piangere i nostri parenti o i nostri cari che non ci sono più. Come l’articolo che ha dato vita a L’amico del cuore, anche il film comincia in un modo e finisce con l’essere invece l’ode a un migliore amico cazzutissimo, che in pochi al mondo possono dire di avere. (Essere un grande amico quando tua moglie sta morendo significa anche non dire mai le parole “mi dispiace”.) Ma la forza del film sta soprattutto nella sua capacità di riconoscere il dolore in tutta la sua esasperazione e il suo caos, e di non tirarsi mai indietro di fronte ad esso. È un sentimento con cui, nel corso dell’ultimo anno, in tanti abbiamo dovuto familiarizzare. Perciò conforta e sorprende vedere il ritratto di una famiglia alle prese con la morte che non cerca mai vie di fuga, ma descrive quello che accade per il fatto brutale ma semplice che è. Il suo essere crudo e onesto si adatta perfettamente al momento che stiamo vivendo.