Cos’è successo, Charlie? Viene proprio da chiedere questo a Charlie Brooker, regista di Black Mirror, dopo aver visto la nuova stagione su Netflix. Sei mesi esatti dopo Bandersnatch, speciale interattivo in cui si decidevano gli sviluppi della storia con un clic, sono disponibili i tre nuovi episodi della serie cult nata nel 2011 su Channel 4 e acquisita dalla piattaforma californiana nel 2015. Se già nel primo passaggio sulla nuova piattaforma lo storytelling pareva aver accusato qualche colpo, generalmente le stagioni successive se l’erano cavata piuttosto bene.
La forza di Black Mirror è sempre stata una: mettere davanti al naso dello spettatore tutte le sue paure più comuni, mischiando quelle primordiali come morte, invecchiamento e solitudine ad altre figlie degli anni 2000 come l’ansia da like, l’assenza di privacy o le conseguenze del climate change. Da una parte c’è l’uomo che cerca una via d’uscita e dell’altra c’è la tecnologia, pronta a soddisfare qualunque bisogno, ma solo se disposti a pagare un prezzo altissimo. Poche metafore, molta ansia e puntate che, una volta arrivati ai titoli di coda, si prestavano a riflessioni concrete.
Nella quinta stagione però l’incantesimo si è rotto. Ci troviamo davanti a un drama come tanti, con la tecnologia non al centro, ma solo cornice di vicende amorose, familiari, di cronaca. Mancano proprio tutti gli elementi che hanno reso la serie unica: profondità, fattore psicologico, evoluzione dei personaggi, paranoia. Fattori che ci hanno fatto riflettere su temi più disparati, come l’eutanasia, e che ora possono al massimo metterci in difficoltà mentre sfogliamo il volantino di Mediaworld.
Non basta neanche Miley Cyrus – conciata per l’occasione come la protagonista degli spot Lines Seta Ultra – che interpreta Ashley O, popstar di successo indotta al coma farmacologico quando si ribella al sistema discografico. L’effetto sociologico della puntata è simile a quello di un “Halloween special” di Hannah Montana. Non bastano neanche i protagonisti di Striking Vipers, due amici di vecchia data che alla soglia dei 30 e con figli a carico si ritrovano a fare l’amore all’interno di un videogame. Omosessualità, gender e realtà virtuale sono effettivamente temi attuali e degni di nota, ma vengono affrontati da una sceneggiatura col freno a mano tirato.
Ci prova il secondo episodio, Smithereens, a ricreare l’effetto adrenalinico dei giorni migliori grazie a un rapimento in diretta social. Ci riesce solo in parte, perché il tema affrontato, la dipendenza da Facebook, nel 2019 puzza già di vecchio. Aggiungiamoci poi una narrazione degna di una fiction Rai et voilà. Addio ad ansie, paure, dark humour e benvenuta mediocrità.
Viene da chiedersi quale sia il problema. Forse si è esaurita la vena creativa, forse l’acquisizione da parte della piattaforma ha portato danni inevitabili, forse dopo qualche anno è semplicemente fisiologico. Fatto sta che Black Mirror ha smesso di essere rilevante. Ora, non sappiamo se ci saranno nuovi episodi o se tutto finirà così. Quello che speriamo, però, è che Charlie Brooker torni a ragionare fuori dagli schemi e torni soprattutto a fare quella cosa che ha dimostrato di saper fare meglio di tutti: farci vedere il futuro.