Spotify: ha cambiato il mondo e il modo di ascoltare la musica, così come ha fatto, nella preistoria di questo presente, l’iPod. E Baby Driver, in fondo, è figlio di entrambi, oltre che del cinema alla Guy Ritchie che incontra la verbosità seducente di un Tarantino (più) lisergico. Di Winding Refn, di cui vi parleranno in tanti, invece, c’è solo un autista sociopatico, che però va veloce, pure troppo, e inventa manovre coreografiche per trarsi d’impaccio.
Edgar Wright da Quentin ha imparato parecchio: mettere facce note al servizio di una storia folle e personaggi sghembi, chiacchieroni, improbabili e irresistibili, ad esempio. Sarà che il maestro questo regista l’ha incontrato davvero, per poi regalare al suo Grindhouse il fake trailer di Don’t, horror demenziale sugli stereotipi del genere; sarà che organizzare una rapina che fin dall’inizio è destinata a un glorioso, sanguinoso, romantico e struggente fallimento è una pista di sceneggiatura perfetta per chi sa usare bene la macchina da presa e scrivere ancora meglio le pagine del proprio script.
Sarà per questo che nelle ultime settimane gli endorsement si sono moltiplicati, da George Miller a Peter Jackson, che hanno addirittura fatto da moderatori a incontri con il pubblico del regista e del suo strabiliante protagonista Ansel Elgort, cuffie sempre nelle orecchie e faccia da schiaffi che ha già catturato l’attenzione di tutti nella saga Divergent e nello straziante Colpa delle stelle.
Uno che tiene l’inquadratura con naturalezza quasi irritante, contando che non di rado ruba la scena a Jamie Foxx, Kevin Spacey e Jon Hamm, tris d’assi che non esitano a scivolare al limite del ridicolo, del grottesco per poi virare sul sublime, in una dialettica tra azione, commedia e sentimenti che di rado abbiamo visto con questo ritmo.
Baby, che si chiama proprio così, “con la y”, è uno che porta almeno tre occhiali da sole con sé, che non ha cronometri per i piani delle rapine a cui partecipa, ma solo la canzone giusta a dargli il tempo, ad accompagnarne i movimenti, a portare la sua concentrazione a un livello parossistico. Ha avuto un incidente da piccolo, Baby, eppure la playlist infinita che ha sempre con sé e che lo isola dal mondo aiutandolo a rimanerne al centro, è come un superpotere. Senza, è perso.
E solo quando hai già cominciato a ridere, a battere il piede, a tifare per il protagonista e per la sua abile ingenuità e i suoi sogni, capisci che anche tu, spettatore, saresti perso senza quella musica onnipresente che all’inizio ti fa paura. Il segreto di Wright e della sua orchestra – è riduttivo parlare di cast – è accordarsi con quelle note, sempre diverse, spesso spiazzanti. Easy dei Commodores con il suo funk soul, Chase Me che compete con le immagini per alzare toni e colori fino a saturarli, Egyptian Reggae che vede Jonathan Richman e i Modern Lovers stendere un tappeto quasi folk rock su cui quasi ti sembra veder ballare tutti. Ma è tutto che suona giusto, da Brubeck a Jon Spencer, da Barry White ai Queen di Brighton Rock, quelli che sceglierebbe oggi un ragazzo dell’età di quel Baby Driver che prende il nome dalla canzone di Simon & Garfunkel (e sì, c’è tranquilli). E anche se i pezzi sono una trentina, alcuni pescati e mutuati anche da altre colonne sonore (Morricone, Zimmer e Newman, a orecchio), non ci siamo dimenticati Let’s go Away for Awhile dei Beach Boys, che in fondo potrebbe tranquillamente essere il sottotitolo del film.
È un’opera programmatica, Baby Driver, nel suo cercare un gioco di specchi entusiasmante tra musica e cinema, tra rock e genere, tra canzoni e dialoghi. Lo è perché Wright ama il cinema di puro intrattenimento e quella musica che sa emozionarti, lo è perché è un (capo)lavoro dell’arte intesa innanzitutto come gioco, creazione, divertimento.
Baby Driver è quel film che ti fa sorridere soprattutto dopo, quando ricominci a respirare, tra una riunione tra criminali e l’altra, tra un colpo gobbo e l’altro, tra una battuta feroce e una sgommata sul sound giusto: spesso rock, mai banale. Come quei concerti che canti a bassa voce per ore, dopo essere uscito dallo stadio. Diventerà un cult movie Baby Driver, proprio perché si smarca un attimo prima di diventare prevedibile: fin dalla scelta della principessa in pericolo (Lily James), passando per vecchie volpi della recitazione che sono in gran forma anche perché possono giocare sulle loro icone (proprie e di riferimento), perché gli effetti speciali sono all’osso e c’è tanto cinema. E perché il regista, da Scott Pilgrim a Hot Fuzz, da L’alba dei morti dementi a La fine del mondo, non ha mai fatto lo stesso film. Anzi, ne ha sempre fatti tanti in uno solo, non avendo paura di esagerare. E di pescare dove altri non avrebbero il coraggio: dalla colonna sonora alla fotografia, dai protagonisti fino alla commistione di generi. Cinematografici, musicali, di scrittura.
Di Baby Driver qualcuno potrebbe darvi qualche stroncatura snob. In caso, ignoratela: Baby Driver è una gran figata, solo che alcuni sono troppo radical chic per ammetterlo.