Quelli che mi vogliono morto di Taylor Sheridan, adattamento del romanzo di Michael Koryta del 2014 disponibile on demand dal 3 giugno, inizia diviso in tre storie distinte, prima di convogliarle in una sola. Nella prima, una pompiera paracadutista è tormentata dal ricordo di un incendio finito male: lei e un gruppo di colleghi si erano ritrovati tra le fiamme in una foresta del Montana convinti che il vento avrebbe soffiato in una direzione diversa, per poi diventare i testimoni della morte di tre ragazzini uccisi dal rogo che erano stati incapaci di salvare. È quel genere di incidente sul lavoro da cui non ti riprendi tanto facilmente: lei di certo non ci riesce.
Nel secondo racconto, ambientato a molti chilometri di distanza, due uomini arrivano a casa di un procuratore distrettuale dicendo di essere dei tecnici del gas: scopriremo che sono invece lì per piazzare un ordigno. È un atto di vendetta. E l’esplosione che segue, subito ripresa dai notiziari, è solo l’innesco di un altro omicidio. E qui veniamo alla terza storia: quella dedicata alla preda. Cioè un contabile forense – l’unica persona che, dopo la morte del procuratore, sembra avere in mano informazioni per alcuni troppo riservate – che si dà alla fuga. Nessuno deve dire a quest’uomo che lui e suo figlio sono i prossimi sulla lista dei killer.
Quelli che mi vogliono morto, convincente neo-western con tratti di action-thriller, mette in scena tutto questo nei minuti iniziali. Quei minuti scorrono veloci, con le tre storie che s’intrecciano e tengono desta la nostra attenzione. Finché non succede ciò che sembra inevitabile. E, insieme, imprevedibile. Il fuoco – puro, devastante, facile da idealizzare e difficile da controllare – è l’asse centrale del film, e ha una potenza sia metaforica che reale: i pericoli che comporta sono concreti. Il senso di Sheridan per il dramma non è sempre a fuoco (pardon). Ma le relazioni tra i personaggi lo sono eccome. In ogni caso, il melodramma che ne deriva – e che a volte finisce in territori troppo melensi o risaputi – ha qualcosa di larger than life che ha un suo perché.
Basti guardare la star del film, Angelina Jolie, che interpreta la pompiera traumatizzata al centro della storia, Hannah Faber, una donna tostissima che sta solo coi maschi e ha un atteggiamento un po’ da bulletta (ma mai al punto di perdere l’autocontrollo, soprattutto quando sembra dimostrare di volerla fare finita). Hannah non ha passato il test psicologico dopo “l’incidente”, ed è diventata la versione “da scrivania” di un pompiere paracadutista: passa le sue giornate in una torretta nel bosco a guardare quel che succede là fuori, in attesa di temporali, incendi, eccetera. Si può credere a Jolie nei panni di una pompiera paracadutista che si lancia in mezzo al fuoco per il bene dell’umanità? Be’, no, ma principalmente per il fatto che i grandi divi del cinema sono sempre poco credibili nella parte dei working class hero. Ma c’è qualcosa, nel film di Sheridan e nello status di Jolie, che rende credibili pure i calli sulle mani che la protagonista sfoggia per tutti i 90 minuti e passa di durata. Angelina sa come reggere un film sulle proprie spalle. E quando incrocia sulla sua strada il ragazzino in fuga, Connor (Finn Little), tutti i pezzi si incastrano perfettamente, e allora crediamo senza problemi all’attenzione di Hannah nei confronti del bambino, alla sua intelligenza e, soprattutto, al suo senso di autorità.
Che torna utile in un film dove gli assassini (interpretati efficacemente da Nicholas Hoult e Aidan Gillen), oltre a lasciarsi alle spalle una serie di cadaveri (perlopiù di persone innocenti), si mettono pure ad appiccare incendi, quando arrivano dalle parti di Hannah. Il legame tra questi due uomini – per non parlare di quello tra i due uomini e il loro capo – è più intrigante di quel che vediamo di solito in questo tipo di film, e ciò dipende soprattutto dal modo in cui Sheridan mostra le reazioni dell’uno nei confronti dell’altro. Quelli che mi vogliono morto è, per molti versi, un film sulle coppie: padre e figlio, Jolie e il ragazzino, e, ultimo ma non ultimo, lo sceriffo locale (Jon Bernthal) e sua moglie (Medina Senghore), così carismatica e tenace che avrebbe meritato più spazio. Quest’ultima coppia è rilevante per tutta una serie di motivi, ma il principale è il loro legame con una scuola di sopravvivenza, un luogo in cui le persone vengono preparate a tutto ciò che di inaspettato può capitare nella loro vita.
È bello, ripeto, vedere che tutto sta insieme, anche semplicemente osservando come i diversi personaggi trovano il modo di sopravvivere. La scrittura di Sheridan (che firma la sceneggiatura con Koryta e Charles Leavitt) e il cast funzionano molto bene insieme. Sheridan è noto soprattutto per aver interpretato un vicesceriffo molto rispettoso della legge, se non addirittura manicheo (nella serie Sons of Anarchy, ndt), che gli altri personaggi chiamavano “Captain America”. Il suo lavoro di autore per cinema e tv è invece più stratificato, anche dal punto di vista morale. I copioni di Hell or High Water (2016), Sicario (2015) e il suo sequel del 2018, di I segreti di Wind River (2017), che ha anche diretto, fino al recente Senza rimorso con Michael B. Jordan – tutte variazioni sul topos dell’eroe western – sono esempi di cinema vecchio stile per forma e sostanza, capaci però di sovvertire il genere stesso per aggiungere spessore contemporaneo a certi stilemi un po’ troppo incancreniti. Sono interessanti perché dimostrano, per esempio, che lo stile del western classico è sufficientemente elastico per raccontare anche i traffici di droga sul confine tra Messico e Stati Uniti di oggi, e l’(im)moralità delle autorità, i crimini contro le popolazioni indigene, persino la storia di due agricoltori disperati costretti a diventare rapinatori nell’America dove vita e lavoro sono sempre più difficili. Sono tutte storie di frontiera che mettono in discussione il mito della frontiera stessa; un mito che è il DNA narrativo del cinema americano.
Dunque, un genere insidioso per mille motivi. Sheridan, in quanto sceneggiatore, deve fare i conti con tutte le implicazioni che queste storie si portano dietro. A volte i suoi affreschi fanno il passo più lungo della gamba: anche uno sguardo più lucido nei confronti dei personaggi a volte non basta a evitare di fallire. E una scrittura che punta a imitare quella di certi grandi romanzieri – Cormac McCarthy su tutti – a volte appesantisce il risultato finale: è il caso dei Segreti di Wind River.
Il nuovo film da regista di Sheridan supera di gran lunga Wind River, dimostra l’abilità di “ritrattista” del suo autore senza sacrificare le urgenze politiche e narrative che gli premono tanto. Quelli che mi vogliono morto è appagante come certi vecchi film. È stucchevole ma senza essere pesante, e sorprendentemente complesso dal punto di vista narrativo; sceglie una mano a volte troppo pesante nel racconto di certe psicologie e al tempo stesso inserisce dettagli di grande sensibilità. Spesso notiamo quanto gli interpreti che diventano registi siano “bravi con gli attori”. Questo è sicuramente vero per Sheridan: Quelli che mi vogliono morto è la prova di quanto il regista comprenda l’immenso appeal di Angelina Jolie e la forza che ne deriva.
Ma recitare ha insegnato a Sheridan parecchie cose anche riguardo alla scrittura, anche questo è evidente. È un autore fermamente contrario alle battute che vogliono spiegare allo spettatore quello che succede sullo schermo, forse perché ne ha dovute recitare troppe nella sua carriera d’attore. Forse per questo dà ai personaggi parole che servono più a rivelare piccoli dettagli di loro stessi, a far comprendere il perché di certe scelte (anche rispetto alla violenza fuori dal comune messa in scena).
Sono queste le dinamiche che rendono Quelli che mi vogliono morto un film migliore della media dei prodotti di genere: riesce a sublimare il suo stesso simbolismo in una “pulp fiction” che solo i bravi narratori sanno trovare. Inevitabilmente, questo è il tipo di film che deve finire con una grande resa dei conti. E non riguarda solo la fine degli assassini. C’è un grande incendio, ovviamente, e un passato con cui fare i conti, e certe paure da superare. È tutto, a suo modo, stucchevole, come abbiamo già detto. Ma i contorni di questa storia, e le sfumature di sincera malinconia disseminate lungo la strada, vanno dritte al punto. Tengono tutto insieme, e sono il vero valore di questo film.