In una grotta, c’è una donna che segna il numero di giorni come farebbe un carcerato – non sulle pareti ma su un librone usurato – e inizia a ballare divertita attorno a un calderone e stalagmiti. A un certo punto la sua voce prende forma e diventa una nuvola di vapore verde che l’avvolge. Sembrerebbe un video perduto di Kate Bush degli anni ’80, se non fosse che questa strega canta col linguaggio dei social. Il testo parla infatti di sexting e astinenza e lei, dopo avere rifiutato foto che “peggiorerebbero la situazione”, cede ed esclama: “show me the banana”. So Hot You’re Hurting My Feelings è bel un momento di stregoneria pop ed è anche l’apice di un’azzeccata campagna promozionale con cui negli ultimi mesi Caroline Polachek si è ripresentata sulle scene.
L’artista esordì nel 2005 nei Chairlift, una band indie americana con la capacità di sfornare pezzi così irresistibili da finire nelle pubblicità degli iPod. Dopo dodici anni e tre album, il gruppo si sciolse amichevolmente. Polachek nel frattempo aveva scritto per altri artisti (No Angel di Beyoncé) e aveva già avuto qualche avventura solista prima con uno pseudonimo (Ramona Lisa) e poi le sue iniziali (CEP), ma nel 2017 era incerta sul suo futuro musicale. Doveva incontrare il produttore Danny L Harle per scrivere canzoni da proporre a Katy Perry, ma un trip coi funghi allucinogeni la aiutò a fare chiarezza e decidere di “smettere di perdere tempo in cose che non la entusiasmavano”. Il risultato di quelle sessioni con Harle è diventato quindi materiale che ha tenuto per sé e che pubblica oggi col suo nome e cognome.
Tutte le esperienze musicali passate di Polachek confluiscono in Pang e lo rendono un album confezionato con cura e senza compromessi per gli algoritmi (in un tweet, scrive orgogliosa: “no interlude, no feats”, e di questi tempi è un manifesto rivoluzionario). La prima traccia, The Gate, è un’introduzione che svela l’obiettivo del disco: trovare il modo di “essere sia liberi che al sicuro”. La voce di Polachek, amplificata dai riverberi e allo stesso tempo rassicurante, si fa guida ideale in un percorso tortuoso. C’è un lieto fine (spoiler) perché l’album termina con la descrizione di un sogno in cui l’autrice cade da un aereo, ma atterra dolcemente, salvata da un paracadute che non sapeva di avere.
Malgrado inizi e finisca con visioni sospese nell’ambient, Pang non è un album da classificare come “etereo”. La scrittura dettagliata di Polachek e i suoni industriali del collettivo PC Music (i collaboratori Danny L Harle, A.G. Cook) ci riportano spesso alla realtà materiale. In New Normal si descrive un SUV che si schianta sul marciapiede (un incidente a cui l’autrice ha davvero assistito) tra suoni metallici sempre più taglienti. New Normal è anche la prova più avventurosa dell’album dal punto di vista strutturale: ripetendo la stessa melodia vocale per sette strofe cambiando particolari nella musica (ma senza mai arrivare a un ritornello), la canzone sembra un poligono che si scompone e ricompone mostrando a ogni giro un nuovo lato.
Pang è l’onomatopea che Polachek usa per definire le scariche di adrenalina che la tenevano sveglia di notte, come se l’eccitazione per avere trovato nuove soluzioni musicali avesse l’effetto di una droga. È un ottimo fil rouge per un album che, anche nei momenti più bui (Insomnia), non abbandona il senso di possibilità. Arriva da un periodo in cui Polachek ha lasciato la sua band decennale e avviato un divorzio e, come l’Utopia di Björk, suggerisce la voglia di riaprirsi al mondo dopo una chiusura significativa. Le immagini più ricorrenti sono cancelli, portali, porte che portano ad altre porte, e si traducono in idee elettroniche d’avanguardia attorno a una voce perfezionata dallo studio della lirica e impreziosita dalla tecnologia. Pang non è fatto per il successo mainstream, ma si colloca tra quei dischi (Body Talk di Robyn, LP1 di FKA twigs, le mixtape di Charli XCX) che danno la forma al pop che verrà. Come Polachek canta in Ocean of Tears, “mostrami il futuro: sono tutt’occhi”.