A metà della nuova serie di spionaggio britannica di Apple TV+ Slow Horses, il veterano agente dei servizi segreti Jackson Lamb (Gary Oldman) studia un cadavere in fondo ai gradini del suo squallido ufficio. Il mortificato subalterno di Lamb, Min Harper (Dustin Demri-Burns), insiste sul fatto che non intendeva uccidere quell’uomo. «Certo che non volevi», sogghigna Lamb. «Se avessi avuto intenzione di ucciderlo, sarebbe ancora vivo».
Il disprezzo di Lamb per Min si estende a tutti gli agenti sotto il suo comando, e con buone ragioni. Gli “Slow Horses”, Lamb incluso, sono tutti membri della comunità dell’Intelligence britannica in disgrazia, per un motivo o per l’altro. (Ad esempio, Min ha distrattamente lasciato su un treno informazioni riservate che i pendolari potevano trovare.) Ciascuno è stato assegnato a un ufficio noto come Slough House, e gli è stato affidato un lavoro umiliante e inutile nella speranza che si licenzi. Quando il nuovo membro di Slough House River Cartwright (Jack Lowden) chiede a Lamb cosa faranno riguardo al rapimento di uno studente musulmano da parte di un gruppo di nazionalisti bianchi, lui risponde: «Quello che facciamo sempre qui: assolutamente niente».
Se fosse esattamente quello che succede, Slow Horses – adattato dallo sceneggiatore di Veep Will Smith (no, non QUEL Will Smith) a partire da una serie di romanzi di Mick Herron – avrebbe le caratteristiche di una sitcom sul posto di lavoro divertente e oscura con una star fin troppo qualificata. Inevitabilmente, però, le spie di Slough House si trovano coinvolte nel caso del rapimento – e nel piano dei rapitori di decapitare la loro vittima su un feed live – su più livelli. E, di conseguenza, Slow Horses riesce a prendere due piccioni con una fava, combinando una trama da thriller con la commedia inaspettata degli outcast dai quali non ci si aspetta nulla e che cercano di risolvere la situazione. Quando un civile assiste all’azione non convenzionale degli Slow Horses e chiede che tipo di spie siano, River fa spallucce e afferma: «Difficile da dire, davvero».
Dieci anni fa Gary Oldman interpretava un tipo molto diverso di agente britannico nella versione cinematografica del romanzo del 2011 di John le Carré, La talpa (Tinker Tailor Solder Spy). Lamb invece è uomo che si è completamente arreso. I suoi capelli sono lunghi e arruffati, ha dei buchi nei calzini (che vediamo perché si toglie spesso le scarpe al lavoro), ogni ruga del suo viso è in bella mostra e l’unica cosa che tende a interrompere i costanti sonnellini alla sua scrivania è il rumore delle sue altrettanto frequenti scoregge. È una splendida interpretazione di un grande attore drammatico a cui non è permesso essere divertente quanto dovrebbe. Ogni gesto rassegnato e ogni sdegnosa lettura di battute è giusta. E Oldman fa costantemente intuire al pubblico quanto Lamb possa ancora interessarsi a questi giochi di spionaggio, in particolare nelle scene che condivide con la sua co-protagonista dell’Ora più buia Kristin Scott Thomas, nei panni di un alto funzionario dell’MI5 che preferirebbe veder sprofondare Slough House e non sentirlo mai più nominare.
River Cartwright è l’opposto spirituale di Lamb. Biondo, bello, intelligente, appassionato e nipote di una leggenda dell’MI5 (impersonata da Jonathan Pryce), è ovviamente destinato a essere l’eroe della versione più semplice di questa storia. Invece, a causa di un errore diventato parecchio pubblico, è anche lui uno Slow Horse, costretto ai compiti più umilianti, come scavare nella spazzatura. Lowden fa un buon lavoro incanalando quella modalità “da buono” mentre si adatta anche al tono ironico e comico della storia, ed è ben accoppiato con Olivia Cooke nei panni della nuova recluta di Slough House, Sid Baker, che sembra ancora più fuori posto di quanto non lo sia River.
All’inizio la trama si muove un po’ lentamente, anche se devo dire che ho letto e apprezzato molti dei libri di Herron, incluso quello che è alla base della prima stagione. Questo è il caso di un adattamento forse più interessante per coloro che non conoscono il materiale originale, non perché sia di qualità inferiore, ma perché è così fedele che lo svolgersi precoce della trama risulta un po’ obbligatorio. Quando però gli Slow Horses scoprono il loro legame con il rapimento – e, cosa più importante, si rendono conto che gli piace ancora fare le spie quando si presenta la rara opportunità – il resto della stagione funziona bene. C’è anche un’impressionante padronanza del tono in tutto, in modo che una scena può essere incentrata su una battuta ridicola che riguarda un successo folk-rock degli anni ’90 e la successiva può invece essere una sequenza raggelante e piena di suspense che coinvolge i rapitori intenti a minacciare il loro prigioniero. Ognuno di questi elementi completa il tutto e lo rende più intrigante: l’umorismo non rende la trama più stupida e l’altissima posta in gioco non fa sembrare le gag di cattivo gusto.
Apple ha già girato la seconda stagione, il che significa che il finale si conclude con una rarità estrema per una serie in streaming: il trailer di ciò che verrà dopo. Sulla base di quanto siano vivaci, acuti e divertenti questi primi episodi, si spera che ce ne saranno molti altri di Slow Horses a venire.