Come fai a dargli torto? Come fai, in tutta onestà, a non credere a uno che ha passato gli 80 e insieme a quelli una quantità di rivoluzioni mancate e di lotte continue, e con la stessa rabbia di allora, adesso, attacca padroni e movimento operaio, gli sfruttatori che hanno cancellato i diritti così come i sindacati che lo hanno permesso? Come fai cioè a non dargli ragione quando ti chiede, sapendo già la risposta, “se non li faccio io questi film chi li farebbe?”.
È un caffè senza zucchero corretto al veleno il nuovo film di Ken Loach, che sì non sarà più (o sempre) il regista di Piovono pietre e Riff Raff, ma resta l’autore di un cinema necessario, consapevole, in grado come nessuno di aprire gli occhi sul presente e d’altro canto incapace di voltarsi dall’altra parte, di fare finta, per noia o interesse, di non vedere tutto il marcio che c’è.
Combattente vero Ken il rosso, che mette la firma su un film amarissimo, ma non per questo appare più arrendevole, più sfiduciato: come lo scorso mese a Bologna, quando ospite della Cineteca, a una platea con un magone grosso così ha detto: “Non piangetevi addosso: organizzatevi”. In Sorry we missed you, l’ennesimo grande film di un regista che prende per il bavero l’ingiustizia dei tempi, Loach è costretto a chiedersi che fine abbiano fatto le 8 ore lavorative, alzando le barricate contro il precariato fai da te: sorpresa, il lavoro logora anche chi ce l’ha.
È il marci o muori del nuovo millennio: niente assicurazione, straordinari, garanzie. Molti rischi e pochissimi diritti. Perché nella gabbia dei criceti di Ken il rosso, dove si corre di continuo per non arrivare da nessuna parte, di ore se ne fanno pure 14 e non bastano nemmeno per stare a galla. Lo sa bene Ricky, working class hero con moglie e due figli (di cui uno in età inquieta), che sul suo furgone consegna pacchi a tutta la città mentre la consorte, che ha venduto l’auto per permettere a lui di mettersi ‘in proprio’, viaggia in bus per aiutare anziani (chi se la fa addosso, chi non vuole mangiare, chi cerca solo un po’ di compagnia) e disabili.
Tu chiamala vita, se vuoi: ma della vita, appunto, cosa resta? È questo il punto che più interessa al regista inglese, che racconta nuovamente le dinamiche di un Paese da 14 milioni di poveri nell’ennesimo spaccato sociale colmo di amara verità: evidenziando senza sconti gli effetti devastanti del lavoro (e della crisi economica che ti costringe a scegliere un impiego usurante) sulla famiglia. Che è sì la ragione per cui ti metti in moto tutte le mattine: ma anche la prima vittima di un sistema dove le persone e gli affetti finiscono per valere meno dei pacchi che consegni.
Perché in fondo la frase di rito che dà il titolo al film, quel messaggio che i corrieri lasciano al destinatario che non era in casa – “ci dispiace di non averti trovato” – è la stessa che la moglie e i figli del povero Ricky potrebbero rivolgere ogni giorno a lui. Dicono sia il jazz la musica che più delle altre racconta il contemporaneo. Sarà. Ma se penso a Sorry we missed you a me piuttosto viene in mente Anastasio: “Correre, tu devi correre / Non devi domandare né rispondere“.