Mark Lanegan ha scoperto un aggeggio chiamato Organelle. È un sintetizzatore portatile che fa anche da campionatore e sequencer, un piccolo computer che produce effetti. Lo usa in una canzone intitolata I Wouldn’t Want To Say e ne cava tutto un nugolo di rumori e fruscii su cui si ritrae come maestro di sciagure, uno che porta miseria nella vita altrui. È un autoritratto che rimanda al libro autobiografico Sing Backwards And Weep in cui Lanegan si descrive come un cinico bastardo, un tossico che ha fatto del male a chi cercava d’aiutarlo.
Tutto l’album Straight Songs Of Sorrow è ispirato al libro e difatti sembra un riassunto di molti temi del canzoniere di Lanegan. Lo è nei testi in cui l’autore dialoga con la morte e lo è in parte nelle musiche, qui piuttosto scarne. Si colloca all’intersezione tra il fascino che Lanegan prova per le macchine e quello mai sopito per il vecchio folk che è stato il punto di partenza della sua carriera solista. È una specie di ritorno al passato che tiene conto di quanto successo da Blues Funeral in poi. In certe scansioni ritmiche e in certi suoni gelidi riecheggiano le parole di I Wouldn’t Want To Say: “Chi lo sa quanti anni mi restano prima della fine di questa triste macchina”. L’esistenza stessa è raffigurata come una macchina che avanza fredda, meccanica, inesorabile.
Superato lo shock dell’introduzione, che somiglia più un oggetto artistico che a una canzone, arriva la ballata acustica Apples From a Tree, col fingerpicking di Mark Morton dei Lamb of God. Ha l’aria della dedica tenera e definitiva alla moglie Shelley Brien, con cui Lanegan duetta in This Game of Love. Tutto l’album passa da pezzi diciamo così tradizionali a canzoni in cui predominano le ambientazioni digitali, tutto oscilla fra l’evocazione di un passato remoto e l’abbandono al potere evocativo degli automatismi.
È anche un disco popolato da fantasmi, questo. Se Ketamine con Wes Eisold dei Cold Cave è cantata con la flemma di un Lou Reed ed è sia una drug song, sia un omaggio a Genesis P. Orridge, che pare abbia detto sul letto di morte a un prete che non aveva bisogno dell’estrema unzione ma di ketamina, il folk Hanging On (For DRC) è per Dylan Carlson degli Earth, compagno di fattanza suo e di Kurt Cobain. “I poliziotti dicono che ce ne dovremmo andare, ma io e te siamo ancora qui. I dottori dicono che dovremmo essere morti, eppure siamo ancora qui”. Questo è anche un album sullo stupore d’essere vivo.
Il problema di parte del repertorio recente di Lanegan è la mancanza d’intensità. È un paradosso per un cantante entrato nella storia del rock grazie a canzoni viscerali e profonde. Un tempo la sua voce bassa e roca sembrava provenire da un luogo oscuro, da un pozzo di sofferenza, dalle viscere. Gli bastava aprire bocca per evocare un mondo. Questo talento enorme s’è come diluito in performance non sempre incisive. È cambiata anche la voce e il modo in cui Lanegan la usa. Oggi è meno roca, bassa e luciferina, più leggera, esattamente il contrario di quel che succede di solito ai cantanti che superano i 50 anni. È anche un po’ più ordinaria, come ordinaria è a volte la scrittura musicale.
Lanegan ha però un’arma potente: la narrazione che può costruire a partire dalle sue vicende personali. Un po’ ti frega perché il personaggio è più grande di queste canzoni ed è facile subirne il fascino. E poi le canzoni ci sono. Quando arrivano pezzi come Skeleton Key in cui il canto s’innalza espressivo oppure il gospel moderno di Daylight in the Nocturnal House con Adrian Utley dei Portishead o ancora la Ballad of a Dying Rover con il Mellotron di John Paul Jones e un’immagine che sembra presa da un vecchio disco blues del cantante che siede sul muro di un cimitero e osserva da lassù le tombe con la consapevolezza di avere i giorni contati, quando arriva roba così gli si perdonano i momenti opachi e routinari.
Chi ama Lanegan, ne conosce la storia e un po’ gli vuole bene troverà ampi motivi per ascoltare e apprezzare questo disco, un rosario di dolori e rimpianti in cui il cantante è spietato con sé stesso come in Churchbells, Ghosts dove si descrive come un vecchio trafficone senz’anima che chiede quarti di dollaro ai passanti, non ha un amico da chiamare e implora dio affinché lo salvi. C’è però il lieto fine. Si chiama Eden Lost And Found ed è una canzone bella strana: il suono di un organo e di archi, un beat da tastierina, la voce che si moltiplica, la voglia d’essere finalmente libero, l’eco del Vangelo. L’abisso e la redenzione. Se Skeleton Key diceva “ho passato la vita a cercare di morire”, questa dice: ero cieco e ora vedo.