Lenny Kravitz è una certezza. Quando hai bisogno di ricordare che cos’era il rock, lui c’è. Strut è il decimo album di puro revivalismo per l’uomo che è rimasto intrappolato negli anni ’70 e vive come l’ultima rockstar sopravvissuta sul pianeta Terra.
Intorno a lui non c’è più niente; non c’è il glamour, la gloria e nemmeno i soldi (il suo ultimo album, Black and White America del 2011 ha venduto 61mila copie ed è andato al numero uno in classifica solamente in Svizzera e in Germania), ma Lenny scrive, canta e suona (tutto da solo come sempre, con l’aiuto del produttore Bob Clearmountain) un disco in cui sfodera tutto il campionario tipico del maschio con la chitarra: la sua donna è una bestia, lui crede solo nell’amore, le relazioni sono un incontro irresistibile di piacere e dolore e lui non ti deluderà mai, baby. E, se c’è bisogno, ti canta anche Buon Compleanno (non è uno scherzo, è la traccia numero 10: Happy Birthday). Non si può fare altro che ammirarlo.
Lenny Kravitz ormai recita, disegna e progetta (attraverso la Kravitz Design Inc., fondata nel 2003) e per lui il rock è un gioco, ma sicuramente gli riesce molto bene: «Questo disco mi ha riportato indietro ai tempi del liceo, a quello che davvero amo della musica». Considerando che il liceo lo ha fatto alla Fairfax High School di Los Angeles insieme a Flea e Slash, si capisce perché Strut è un manuale di soulful rock recuperato dal passato e pronto da consegnare ai posteri con un nuovo tour mondiale che parte in ottobre da Mosca. Il groove c’è, l’esplorazione dei riferimenti (da Prince ai Led Zeppelin) anche, il talento non è mai stato in discussione, figuriamoci la personalità. Lenny Kravitz è tornato per riportare indietro l’orologio, e non sbaglia.