Andiamo subito al punto: in Suburra 2 si muore. E pure parecchio. Chi meno te lo aspetti, quando meno te lo aspetti, boom, game over. D’altra parte ormai una serie non si può dire tale se non ci scappa qualche cadavere. Figuriamoci se non succede nella Roma più lorda, quella di cui tira le fila sua maestà Samurai. Ma ciò che conta è il percorso, no?
C’è una scena nei nuovi episodi che sembra uscita da una tragedia shakespeariana: quella della resa dei conti tra Aureliano e la sorella Livia. Nessuno spoiler, era naturale che prima o poi i due si scontrassero dopo che lei aveva ucciso la compagna del fratello ed era fuggita. Non serve dire altro, solo che la potenza espressiva e l’energia selvaggia con cui Alessandro Borghi e Barbara Chichiarelli scolpiscono quei pochi minuti ne fanno uno dei punti più alti della serie. È una sequenza liberatoria, esplosiva. Se la prima stagione infatti aveva preparato il terreno, versato il combustibile e posizionato la miccia, ora Suburra accende il fiammifero. Esplode la storia, ma – soprattutto – si infiammano i personaggi. Più maturi sì, perché in qualche modo rabbiosamente costretti a crescere dalle perdite subite, ma anche più soli, ognuno a modo suo. E se siete preoccupati per la bromance tra Aureliano e Spadino, tranquilli.
Sono passati tre mesi dal finale di stagione, siamo nei quindici giorni che intercorrono tra il primo turno e il ballottaggio per eleggere il nuovo sindaco di Roma, mentre nella Capitale sotterranea è in corso la guerra per incoronare il nuovo (?) re del crimine. All’inizio del primo episodio tutti cercano Livia Adami: Aureliano per vendetta, Samurai per la firma sui terreni di Ostia, Spadino come leva per diventare capo e Lele perché viene di nuovo ricattato da Samurai.
Allo stesso Samurai (Francesco Acquaroli, spacca come sempre) tocca giocare ancora più duro: è meno stanco e sofferente sotto il fardello delle responsabilità e pronto a qualsiasi cosa pur di non farsi soffiare il potere. Anche per questo ha pagato la campagna elettorale di Amedeo Cinaglia (Filippo Nigro), uno che in confronto il passaggio al Lato Oscuro di Darth Vader era niente. Ah, Samurai ha una specie di figlioccio (Jacopo Venturiero) che, ve lo giuro, sembra Bonucci. Ma non divaghiamo.
A Sara Monaschi (Claudia Gerini) invece era esploso tutto in mano alla fine della prima stagione: il suo matrimonio era finito e i suoi intrallazzi in Vaticano pure. Ma una come la Monaschi trova sempre il modo di risorgere, qui lo fa sulla pelle di 500 migranti, che sono arrivati a Ostia il giorno prima delle elezioni. Fin dall’inizio Suburra ha sollevato questioni di cronaca e anche qui la sceneggiatura va a toccare l’attualità più stringente, tra l’immigrazione e una certa politica che vuole “cavalcare la rabbia della gente incazzata”. Tutto sempre ai fini della storia, con i fatti declinati in un linguaggio di genere, senza la pretesa di fare analisi sociologiche o dietrologie.
Ma arriviamo al trio delle meraviglie, e cioè “la guardia, lo zingaro e il padrone de Ostia”. “Se dovemo piglià tutto. È ora che ‘sta città passa de mano” dice Spadino. Nella prima stagione hanno ucciso i padri, come nella migliore tradizione della tragedia, ma non è bastato. Ed è ormai chiaro cosa sia in fondo Suburra: un coming of age gangster, come direbbero gli americani, piccoli criminali crescono all’ombra del Colosseo. E Aureliano, Spadino e Lele, sono diventati uomini, tutti e tre. Il primo ne porta i segni anche addosso: niente più ghigno e biondo platino alla Johnny Rotten, inizia ad assomigliare al Numero 8 del film con i capelli rasati di lato e le ali tatuate sul collo. È al comando del clan degli Adami sì, ma ha gli occhi di chi ha perso troppo per arrivarci e fatica a tenere sotto controllo il territorio. La rabbia e la disperazione con cui Borghi pennella (ancora una volta da applausi) Aureliano sono quasi sempre silenziose, come se lo consumassero dall’interno e scoppiassero solo in alcuni momenti topici.
Spadino (grandissimo Giacomo Ferrara) non ha abbassato la cresta (pun intended), tutt’altro, ma è meno impulsivo, più maturo. È decisissimo a comandare la “famija” mentre il fratello Manfredi è in coma, ma si rifiuta di scegliere tra l’essere “zingaro o frocio”: vuole tutto – compreso esplorare la sua omosessualità, almeno nel privato – ed è disposto a tutto per averlo.
Lele (Eduardo Valdarnini) invece pensava finalmente di aver allontanato i ricatti di Samurai seguendo la strada del padre, ma forse la sua nomina a vice ispettore a pochi mesi dall’entrata in polizia avrebbe dovuto dirgli qualcosa… Ognuno di loro è affiancato o osteggiato da un presenza femminile: perché in Suburra ci sono donne che comandano e tramano almeno quanto gli uomini. Livia, che è il motore di tutto, ma pure Adelaide Anacleti (Paola Sotgiu), la mamma di Spadino, che non molla niente, e soprattutto Angelica, la moglie (una Carlotta Antonelli sempre più convincente), che ha sicuramente lo sviluppo più ampio e significativo.
È vero, qualche dinamica è poco naturale e c’è il rischio che la cornice narrativa gioco-forza imposta dal film di Sollima limiti lo sviluppo della narrazione, senza contare che le storie di crimine all’italiana e il marcio di Roma non sono decisamente più una novità. E la serie un po’ ne risente ma cambia il passo per provare ad evitare il rischio del già visto: il racconto è più lineare e ritmato, la regia meno sensazionalistica e più diretta, l’impronta più cinematografica pur restando popolare. Ma togliete a Suburra i suoi personaggi lontani dal manicheismo, tutti dolorosamente umani, e le toglierete tutto. Perché va bene il crime, ma è il turbine che si muove dentro ai suoi protagonisti a bucare lo schermo, sono lo sguardo ferito di Aureliano mentre guarda mare di Ostia e quello folle di Spadino quando balla il motivo per cui Suburra è Suburra.