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Superorganism, chi ha bisogno di nuovi idoli?

Non stupiamoci se sulle prime giravano teorie su chi fossero: Kevin Parker? Damon Albarn? Il debutto di questa quasi-band è una rivelazione.
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Se digitate www.wearesuperorganism.com sulla barra di ricerca del browser vi si parerà davanti un mondo fatto di gattini buffi, galassie iper-colorate, balene, delfini e meme vari. Ovviamente, tanto per aumentare il livello di hipsteraggine, l’interfaccia grafica del sito è tutta in codice html come ai tempi dell’Internet pre-millennium bug.

Se poi cliccate sulla volpe in basso a destra, si aprirà la finestra di un gioco online (all’indirizzo escapeinter.net), dove dovrete guidare una balena in un mondo a 2 dimensioni superando pericolosi ostacoli come ragni e piovre incazzate. Occhio solo a quando passate sotto alla fontana arcobaleno, che se vi colpisce andate in botta che manco il peggio LSD e la schermata si fa ingiocabile, tutta distorta. Ecco, diciamo che il sito è un buon modo per inquadrare i Superorganism. E non bisogna certo essere del RIS di Parma per capire come abbiano fatto a conoscersi otto fricchettoni che vengono da Inghilterra, Giappone, Sud Corea, Australia e Nuova Zelanda: l’Internet, ovvio.

A vederli, Orono, Harry, Emily, Ruby, B, Soul, Tucan e Robert Strange sembrano saltati fuori da una campagna moda di American Apparel. Un po’ sfigatini, ma quel tipo di sfigatino nerd che oggi risulta cool, tutti vestiti colorati, gender fluid e con un’eterogeneità di etnie che farebbe impallidire persino Benetton. Sei di loro, dopo i classici approcci social che ormai sono la prassi, si sono incontrati in Nuova Zelanda. Da lì, la decisione è stata di affittare tutti un loft a Londra nel 2016, per cominciare a scrivere.

Foto di Steph Wilson

Il primo materiale era decisamente buono, solo che la voce di Emily o quella di Harry non bastavano. Così, Emily ha pensato bene di inviare il file con la base della prima canzone a una sua Internet friend giapponese (che in quel momento stava studiando nel Maine), così che ritornasse indietro con un testo cantato. Orono Noguchi, classe 2000, timida ma con il timbro bollente di una Lana Del Rey senza tutta la parte vanitosa, è stata il catalizzatore del gruppo. Con lei a bordo, il superorganismo che vive 24 ore al giorno nell’attico londinese sembra provenire direttamente dal più bagnato dei sogni erotici di un A&R discografico. È immediato, efficace dal primo istante proprio perché universale nelle influenze e citazioni di background: cartoni animati giapponesi, hip hop, indie dei primi Duemila e videogiochi – uno dei tanti side effect della globalizzazione sulla generazione Y e millennial.

Orono e i suoi sono così efficaci, che quando nel gennaio 2017 è uscita Something For Your M.I.N.D., ci è voluta una settimana scarsa perché venissero contattati da Domino Records: “Ehilà, siete bravi, che ne dite di un bell’album?”. E non stupiamoci se, sulle prime, circolavano teorie cospirazioniste sulla vera identità della band. La gente credeva che in realtà Superorganism fosse un moniker di Kevin Parker oppure l’ennesimo side project di Damon Albarn. E te credo. I beat scarni, black, eccentrici perché frutto di noia di It’s All Good e SPRORGNSM sono figli dei Gorillaz. Solo che la giapponesina nel gruppo i Superorganism ce l’hanno in carne e ossa, non disegnata. Le chitarre sghembe di Relax restringono addirittura il campo a Demon Days, opera prima dello spinoff dei Blur.

Quanto ai Tame Impala, ci pensa la psichedelia downtempo di Everybody Wants to Be Famous a confondere le idee, seguita a ruota dall’esatta negazione di Nobody Cares. Ed è quest’ultima a tradire la vera funzione del collettivo: fare da eredi agli MGMT, sopperire dieci anni dopo Oracular Spectacular alla grande responsabilità messa sul piatto da Van Wyngarden – sul proprio Tumblr, Orono ha caricato pure sue foto, corredate di cuoricini.

Il mondo è orfano di icone alternative, di idoli freak. Sulle webzine si leggono anche articoli che inneggiano alla morte degli hipster. Ecco, i Superorganism, con i loro arcobaleni, i gattini, l’indie rock aggiornato all’era dell’hip hop, arrivano dal nulla per ridare colore a un mondo hipster che stava cominciando a parlare un po’ troppo di Berghain e di Air Max. Una creatura nata da Internet per Internet. L’ennesima dimostrazione che non tutti i modem vengono per nuocere.

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