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Tame Impala, ‘The Slow Rush’ è una pozione d’amore lisergico

Nonostante qualche citazione di troppo e una scrittura un po’ derivativa, ascoltare il nuovo album di Kevin Parker è come viaggiare verso un altro pianeta, un luogo pieno di riverbero, vortici psichedelici e arrangiamenti chic
3.5 / 5

Kevin Parker è un mago dell’art rock col cuore d’oro, capace di scrivere splendenti sinfonie psichedeliche con i Tame Impala, progetto in studio che è cresciuto fino a diventare una band abbastanza grande da suonare da headliner al Coachella. Con i capelli fino alle spalle e le jam spaziali, Parker riporta in vita l’era perduta degli stregoni dell’art rock, i druidi che negli anni ’70 si rifugiavano in caverne di suono nutrendosi solo di tè allucinogeno e discorsi filosofici da sostenere accarezzandosi la barba. Parker, in realtà, è un tipo moderno e la sua musica funziona perché bilancia la grandeur di una volta con raffinatezze zuccherose contemporanee. È per questo, probabilmente, che Rihanna ha suonato una delle sue canzoni ed è per questo che è stato scelto per collaborare con Lady Gaga, Kanye West e altre star.

The Slow Rush è il primo album dei Tame Impala dopo Currents, l’album del 2015 che li ha trasformati in star mondiali. Parker canta ancora come uno dei Bee Gees con l’anima di Major Tom, la sua voce svolazza su strati di disco music, funk, beat trip hop, splendide atmosfere di sintetizzatori e melodie accomodanti in stile soul da yacht. Anche quando le canzoni si perdono in vortici psichedelici, o quando riempie un brano di minuscoli micro-movimenti, tutto sembra studiato ossessivamente e nei minimi dettagli, come se il tempo dedicato da Parker al suono della batteria fosse lo stesso che gli altri artisti usano per un intero album. Se qualcuno vi dicesse che The Slow Rush è stato suonato da un’armata di musicisti non ne sareste affatto sorpresi, ma i crediti recitano: “all music written, performed and mixed by Kevin Parker”.

Un po’ come faceva Brian Wilson, Kevin Parker porta i Tame Impala verso mille direzioni diverse: One More Year ha un suono brillante e costoso, come una nave spaziale appena uscita dalla catena di montaggio, con un vocoder alla Daft Punk che scivola dentro un vortice di batterie disco, un sottile giro di basso e schizzi di chitarre alla Chic, mentre Parker canta di un futuro perfetto appena al di là dell’orizzonte. Tomorrow’s Dust è l’ombra del vecchio splendore hippie-folk, piena di filigrana acustica, jive disperato, sensibili tocchi di percussioni, sintetizzatori al laser e un testo cantato con una gentilezza alienante. Parker non ha paura di far vedere le sue passioni musicali; Glimmer dimostra la sua profonda devozione per la Chicago house e la techno di Detroit; in On Track veste i panni del poeta soft rock, e le tastiere all’inizio di Might Be Time sono un chiaro indizio della presenza, nella sua collezione di dischi, di due copie di Breakfast in America dei Supertramp, una per la casa in città e l’altra per quella al mare.

A cosa porta tutta questa maestosità dorata? Non a molto. Un intero album basato sul falsetto distratto e riverberato di Parker può diventare derivativo, non importa quanto sia splendente la parte musicale. A guardarlo da vicino, The Slow Rush sembra più il portfolio delle sue raffinatezze da produttore che una raccolta di canzoni. Se lo trattate come musica d’atmosfera, invece, l’album è come un dolce trip. “Let’s drink this magic potion of love and emotion”, canta nella soleggiata Instant Destiny. Sedetevi in poltrona, rilassatevi e sorseggiate un drink. The Slow Rush scioglierà ogni tensione.

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