Partiamo da un dato di fatto. Se negli ultimi vent’anni avete visto almeno un buon film italiano al cinema, ci sono buone possibilità che la colonna sonora della pellicola in questione sia stata scritta da Teho Teardo. Partendo da quel piccolo gioiello che fu Denti di Salvatores, proprio all’inizio del nuovo millennio, l’elfo di Pordenone è diventato negli anni uno spartiacque talmente profondo nell’immaginario delle soundtrack tricolore, che assai probabilmente ne incarnerà l’unità di misura per le prossime a venire.
In un passato neanche tanto remoto si era soliti parlare, in questi casi, di epigoni o tutt’al più di eredi di Ennio Morricone, anche se assai raramente qualsiasi paragone è stato veramente sensato. Tu vuoi perché il Maestro rappresenta una galassia a sé stante, vuoi perché non c’è più in giro un equivalente con quella volontà prettamente orchestrale in grado di fare sanguinare il cuore, vuoi perché oramai si predilige comporre più con un portatile che con un quartetto d’archi, vuoi perché ci vorrebbe una tonnellata di talento, credibilità ed estro che, di sicuro, non si trova la mattina al mercato.
Un problema, questo, che però non riguarda Teho Teardo, che invece alla bella scorta personale di genio, attitudine e fantasia ha da aggiungere un’incredibile personalità. In grado di trasformare il paragone con Morricone in uno stupido esercizio di stile, perché in grado di superarlo (il paragone, non Morricone, o almeno non ancora) con un registro altro che lascia il proprio ascoltatore sin dal primo ascolto affascinato dallo spessore degli arrangiamenti e soprattutto dalla ricerca nei contenuti. Insomma, tutto quello che occorre per capire alcuni perché del successo dei film che le sue musiche accompagnano e sorreggono: da Il Divo di Sorrentino a Lavorare con lentezza di Chiesa, passando per Una vita tranquilla di Cupellini, Il passato è una terra straniera di Vicari e tanti altri.
Non stupisce perciò che, nel corso del tempo, quella di Mauro Teho Teardo sia diventata molto più che la semplice carriera solista dell’ex-fondatore dei Meathead (chiedete ai vostri fratelli maggiori, se non sapete di cosa si stia parlando). Piuttosto una sorta di inconsapevole perpetua comune, con Teardo come calamita e centro vitale della stessa, dal quale vengono fuori una serie impressionante di collaborazioni accomunate da un approccio formale limpido e aperto a una sperimentazione viva e continua che unisce spinte e linguaggi differenti. E non è certo un caso che alcune delle menti più brillanti di questo mesto presente, da Elio Germano a Blixa Bargeld (Einsturzende Neubauten), da Scott McCloud (Girls Against Boys) a Joe Lally (Fugazi), abbiano voluto incrociare la propria vita (non solo) artistica con quella di Teardo. Del resto, come diceva Barbery, fatevi un solo amico ma sceglietelo bene.
Anche all’origine di questo disco c’è un incontro: quello col regista e scrittore irlandese Enda Walsh, già noto per aver scritto con David Bowie Lazarus ma anche il film Hunger di Steve Mc Queen, con cui Teho Teardo collabora oramai da diversi anni.
La musica è stata composta subito dopo la lettura dell’omonimo libro Il Dolore è Una Cosa Con Le Piume. Un mese dopo, Walsh confida a Teho di essere stato anche lui folgorato dal racconto di Max Porter e di volerne quindi trarre un’opera teatrale. Così, nel giro di pochi mesi, Grief Is The Thing With Feathers è diventato pure uno spettacolo in scena a Londra e già sold-out con un camaleontico Cillian Murphy, ritratto baffuto in copertina, nei panni del protagonista. L’attore, amato da Danny Boyle e Wes Craven, icona della serie-culto Peaky Blinders, è in grado di regalare una performance straordinaria ma è un valore aggiunto perché anche la musica ha un ruolo tutt’altro che minore nello spettacolo.
L’incontro tra il background neo-classico determinato da archi, fiati e voci, e l’attitudine minimale e introversa di Teardo, diventa la base su cui si costruiscono gli umori che descrivono la storia di un vedovo, i suoi figli e un corvo dotato di un feroce senso dell’umorismo – un po’ Mary Poppins, se Mary Poppins l’avesse scritto Tim Burton, un po’ analista, ma soprattutto amico fidato. Nei solchi di Grief luci e ombre, ricordi tristi e altri felici, abbandoni e ricongiungimenti, amore e morte, riescono a emergere nel continuo dialogo tra classicità ed elettronica ancora prima di vederli rappresenti in scena.
È un disco che aiuta a venire a patti con la sofferenza della trama, dura e allo stesso tempo catartica, liberatoria del libro. Segno inequivocabile, questo, che dietro la semplicità apparente del lavoro di Teho Teardo c’è un grande carattere e una forte empatia col testo (“A me suona come il graffio della mia penna sulla carta”, nelle parole dello stesso Max Porter). Un filo sottile così ci lega agli otto movimenti della colonna sonora. Tra violoncelli impetuosi e sghembe inserzioni rumoriste, tra aspri momenti di quiete e improvvisi ritorni ensamble, bassi cardiaci, slide chitarristici e voci ancestrali, Teho Teardo riesce a costruire, a partire dal manoscritto originale, un lavoro che respira di una sua vita propria e di una sorprendentemente vitale contemporaneità.