ATTENZIONE, la recensione contiene spoiler.
Ha lo stesso effetto di un’intramuscolare buttata lì da Netflix all’ultimo momento, otto puntate per venti minuti, tanto che la maratona dura poco più di due ore, ma basta e avanza per celebrare l’inizio di una love story in pieno stile Sid e Nancy in una pièce tutta da guardare. Basata sul pensiero fumettistico di Charles Forsman, The End of the F***ing World racconta l’Inghilterra degli emarginati, dei sofferenti, degli esclusi, avulsa da immagini patinate e riletture mondane, e rapisce da subito.
Mi scopro a pensare che qui da noi storie così non le raccontiamo, non in questo modo, i nostri eroi maschili hanno sempre l’occhio scopino, la mascella Forrester e la barba dura e sfatta, le storie femminili sono sempre Cristiana Capotondi, peraltro decisamente molto brava qualsiasi cosa faccia, perché la bontà è definita dalla grazia, non dal sudiciume dal quale si cerca di fuggire sognando un mondo migliore. Dunque, provate a immaginare un ragazzo solo, isolato, figlio di madre suicida e padre apparentemente rincoglionito, sfortunatamente intelligente ai limiti della genialità e con chiare ambizioni da serial killer, e provate, ancora, a immaginare anche una giovane donna cresciuta affettivamente sola, costretta a rimboccare le coperte alla mamma borderline e incapace di reagire alle negatività, una giovane donna appena nata e già incazzata, sboccata, violenta, arrogante, che tu poi lo capisci che le hanno rubato l’amor proprio, distrutto l’anima, che a un certo punto anche basta, pensa lei, pensi tu, basta regalare il lato B a un’umanità che ne approfitta e che se ne frega di te, che vivi lontana più che puoi dal centro di tutto, chilometri e chilometri tra te e un minimo di speranza, e fai tenerezza mentre cammini come un bulletto da strada che manda a cagare i passanti che incontra, e devi sembrare un po’ puttana, anche se non conosci il sesso, perché le puttane sanno cos’è la vita e per questo fanno maledettamente paura, e poi devi essere pronta a scappare assieme alle tue lentiggini e ai capelli tinti alla cazzo, con il giubbotto in pelle che ti ha lasciato tuo padre prima di andarsene, troppo grande per te, troppo sporco, troppo vecchio, e cercare di smettere di avere paura, che è la cosa più difficile di tutte, perché ci sei nata, ci sei cresciuta, te l’hanno insegnata.
E ha paura anche lui, con la mano sfigurata da una friggitrice, ha paura che gli dicano qualcosa, che gli facciano qualcosa, perché quando capita non riesce a dire nulla, nemmeno quando un vecchio depravato lo obbliga a rimestargli l’uccello nei cessi di un autogrill. E poi questa distonia, tra il dramma e il commento musicale, che rende la narrazione meno pesante, spesso divertente, perché i sassoni hanno lo humor grazie al cielo, e allora questi due qui, un giorno, si incontrano a scuola, diciassettenni trattati con il Topexan, e lui vorrebbe tanto finirla con il suo coltello da caccia, e lei avere un complice per disintegrare l’universo conosciuto, e partono, correndo nella brughiera, rapinando, uccidendo per difendersi, e giuro che tra uno schizzo di sangue pulp alla Tarantino e quattro bestemmie british si ride di gusto, per poi commuoversi tirando su con il naso.
Il fatto è che gli vuoi bene a James e Alyssa, che così si chiamano, gli vuoi bene come facevi con Remì, Gigi la trottola e il Puffo baciatore con l’herpes a dieci anni, gli vuoi bene e stai dalla loro parte, tutto il resto non conta, sai che continueranno a prenderla nel fiocco sempre e comunque, sono vittime che si ribellano, e dentro questo mondo merdaiolo e fanculistico trovano perfino il tempo di innamorarsi, ed è una storia d’amore di quelle belle, di quelle che si portano fino in fondo, di cui si ha cura, che poi tocca piangere, molto di più del minimo sindacale.
Il padre di James è uno di quelli di cui i figli si vergognano. Meno brillante di un abat-jour dell’Ikea, colleziona figuracce estreme e battute infelici, mentre in realtà si tratta di uno di quegli uomini ammirevoli che preferiscono soffrire in silenzio, difendendo il figlio da un’ apparenza disdicevole molto lontana dalla verità. Fondamentalmente è tutto qui, anche se non sappiamo ancora come è andata a finire, questo ce lo diranno gli autori tra qualche mese, visto che la seconda stagione è già in cantiere. Al di là delle logiche identificazioni, dei sentimenti, delle emozioni rilanciate dallo schermo, questa serie scandisce tempi nervosi e sincopati mantenendo un ritmo molto alto, la fotografia è volutamente grigia e l’atmosfera ovattata, come a manifestare solidarietà alla tristezza che invade esistenze altrimenti serene.
C’è il mare, alla fine, e una barca. C’è ancora una possibilità di fuga, di farla franca, di trovare terra in luoghi conosciuti solo su internet dove poter cambiare nome e ricominciare una nuova vita senza avere più paura. Non sarà così. Per ora.