Se qualcuno si aspetta un disco epocale dai Libertines, per di più nel 2015, forse ha un problema più vasto. Ma è difficile negare che per ogni iniziativa della band si manifestino sempre un po’ di aspettative o di curiosità. Il gioco dei Libertines era chiaro da subito: sono sempre stati l’emblema del rockarello inglese più confacente a chi venera Londra proprio in quanto macchina da hype.
Il loro maledettismo chic ai limiti della parodia (cavalcato ancor oggi, fin dal video di Gunga Din) è stato spesso usato per creare quel tanto di polverone dietro al quale tutti credevamo (o volevamo credere) scorgere barlumi di ispirazione vera, di inventiva sopraffatta dal cialtro- nismo esteriore.
Tuttavia questi inni per una gioventù condannata (e già al titolo prudono le mani) non spostano di molto le ragioni che a tale condanna hanno portato, e che si sarebbero evitati se solo avessero trovato meno indulgenza lungo il loro cammino. Invece, anche negli Anthems, nei ritornelli come nelle liriche, Barat e Doherty paiono sempre a un attimo dal colpo di genio, e a un attimo dal mandare tutto in vacca e danno l’impressione di trovarsi più a loro agio con la seconda soluzione. Forse un produttore più muscolare di Jake Gosling (Ed Sheeran, One Direction) avrebbe irrobustito pezzi come Iceman, Heart of the Matter o The Milkman’s Horse, in cui i due bandleader si fanno trasportare da ogni refolo di idea, quasi a ostentare tutta la loro strafottente libertà. Curiosamente, i pezzi più credibili risultano quelli in cui il gruppo sembra cercare di suonare come qualcun altro (dai Kinks ai Blur, fino addirittura ai Kasabian). Il risultato finale è più piacione che piacevole. Ed è esattamente questo, ciò che ne è stato dei “likely lads”.
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