‘The Stand’, il nuovo adattamento di Stephen King non usa le sue armi migliori | Rolling Stone Italia
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‘The Stand’, il nuovo adattamento di Stephen King non usa le sue armi migliori

Nonostante le interpretazioni di Alexander Skarsgård e James Marsden, la nuova serie tratta dal classico post-apocalittico ha dei problemi di struttura. E Whoopi Goldberg non convince sempre del tutto

Alexander Skarsgård e Nat Wolff

Foto: CBS

Stephen King ha sempre avuto problemi con la fine dei suoi libri, il “contro” di scrivere senza troppi contorni e lasciare che la storia vada ovunque abbia senso in quel momento. E gli incipit, però? Quasi nessuno scrittore è stato più forte di lui sulle premesse, e pochi romanzi di King iniziano meglio della sua opera post-apocalittica del 1978 The Stand (in italiano L’ombra dello scorpione, ndt).

Il libro si apre con un soldato che fugge da una struttura militare top-secret mentre si scatena una piaga che uccide tutti intorno a lui. Recupera la moglie e la figlia e se ne va via nella notte, diffondendo inconsapevolmente il virus (presto noto come Captain Trips) in tutto il mondo, fino a quando solo una piccola parte della popolazione mondiale riesce a sopravvivere. I primi capitoli sono così implacabili ed efficaci nell’introdurre personaggi principali come il texano Stu Redman e il musicista drogato Larry Underwood che le prime cento pagine volano via, anche nella riedizione ampliata del 1990. L’adattamento della miniserie ABC del 1994 ha i suoi difetti, ma almeno riconosceva il potere dell’incipit di King, che, in forma televisiva, faceva sentire Don’t Fear the Reaper di Blue Oyster Cult prima che quella canzone fosse più che altro associata alla frase “more cowbell”.

Ora The Stand è tornato in tv, questa volta come miniserie in nove episodi su CBS All Access e, in Italia, StarzPlay (dal 3 gennaio). In un certo senso, è un miglioramento rispetto alla versione ABC, grazie a diverse ottime interpretazioni (in particolare, Alexander Skarsgård nei panni del diabolico cattivo Randall Flagg e James Marsden nella sua modalità più convincente, l’americanissimo Stu), oltre a progressi negli effetti digitali e nel trucco, che consentono la creazione di una fine del mondo più credibile di quanto fosse possibile mostrare un quarto di secolo fa.

Jovan Adepo e James Marsden. Foto: CBS

Ma, per altri versi, il nuovo The Stand preoccupa sin dall’inizio, o meglio: da dove inizia. Perché, per qualche sconcertante motivo, questa versione sceglie di partire da metà. Vediamo la fuga del soldato, e ciò che persone come Stu, Larry (Jovan Adepo) e Frannie Goldsmith (Odessa Young) hanno vissuto nei primi giorni dell’epidemia di Captain Trips. Ma li vediamo nell’ordine sbagliato: lo show si apre cinque mesi dopo la fine del mondo come lo conosciamo, con una comunità di sopravvissuti già formata a Boulder, in Colorado, e con il raccapricciante vicino d’infanzia di Frannie, Harold Lauder (Owen Teague), che aiuta a smaltire i tantissimi cadaveri lasciati dal virus. Da lì, la miniserie rimbalza avanti e indietro nel tempo, tra gli eventi di Boulder, l’epidemia e i viaggi che i nostri eroi hanno intrapreso per trovare Madre Abagail (Whoopi Goldberg), la vecchia saggia che rappresenta le forze della luce opposte al male di Flagg, decadente comunità di Las Vegas.

I film e le serie televisive utilizzano da sempre la narrazione non sequenziale, spesso come modo per rendere più accattivante per il pubblico una trama che altrimenti richiederebbe troppo tempo per essere spiegata. L’apertura in medias res è raramente un espediente convincente, anche se le motivazioni alla base sono comprensibili. Ma il regista di The Stand Josh Boone e lo showrunner Benjamin Cavell, che hanno scritto il primo episodio insieme, hanno inspiegabilmente fatto il contrario, minimizzando un inizio esaltante per atterrare invece nel mezzo della storia.

Potreste pensare che i cambiamenti siano stati apportati in risposta al Covid, perché chi vuole assistere alla diffusione di una pandemia immaginaria mentre ne stiamo ancora combattendo una vera? Ma Cavell ha detto che questo è sempre stato l’approccio che avevano in programma di adottare, perché ritengono che The Stand non sia tanto incentrato su Captain Trips quanto sui tentativi dei sopravvissuti di ricostruire il mondo all’indomani dell’epidemia. Da quella prospettiva, saltare direttamente a Boulder ha un senso. Ma ruba a questo adattamento tutto lo slancio narrativo e indebolisce i tentativi di inquadrare i personaggi e le loro relazioni. I buoni finiscono tutti sulle Montagne Rocciose, ma la storia è piatta come le pianure che (velocemente) attraversano lungo la strada.

The Stand | Official Trailer | Paramount+

Il libro di King ha avuto un’enorme influenza su Lost, e il racconto di Boone e Cavell sembra più modellato sulle avventure di Jack, Kate e Sawyer che sul testo originale. I primi episodi enfatizzano uno o due personaggi (Harold e Stu nel pilota, Larry nella seconda puntata, Amber Heard – nei panni della compagna di viaggio emotivamente ferita di Larry, Nadine – nella terza) e tentano di usare la narrazione non cronologica per collegare vari momenti del loro viaggio. Questo rimbalzare, però, nel tempo è perlopiù controproducente.

Entriamo in relazioni già approfondite, e solo a volte ci viene dato in seguito il contesto necessario. Quando il gruppo di Stu decide di inviare alcune spie a Las Vegas per vedere cosa sta facendo Flagg, ad esempio, viene presentato come un grosso problema il fatto che nominino il loro amico con disabilità di sviluppo (*) Tom Cullen (Brad William Henke) per l’incarico. Ma Tom è praticamente apparso in una sola scena fino a quel punto, quindi la fiducia degli altri in lui e il dilemma morale di mettere in pericolo qualcuno che non può comprendere appieno il rischio dell’impresa non si concretizza mai. La serie offre anche alcuni scorci sui personaggi nel corso della strada per Boulder, ma in modo intermittente e rapido, prima di perdere interesse per quella parte della storia – probabilmente la più cruciale per spiegare l’importanza di questo gruppo – del tutto. Abbiamo abbastanza elementi sul perché Stu e il professore universitario Glen Bateman (Greg Kinnear) diventino amici, ma nella migliore delle ipotesi restano impliciti passaggi enormi nella storia d’amore tra Stu e Frannie, e il destino degli altri personaggi viene risolto con un’esposizione un po’ goffa.

(*) Diversi personaggi del libro non sono invecchiati bene, specialmente Tom e la magica centenaria afroamericana Madre Abagail. Cavell e Henke cercano di riformulare Tom in un contesto più illuminato – ogni volta che conosce qualcuno, pronuncia un discorso preparato, che ha chiaramente ricevuto da un assistente sociale o da un insegnante, sui suoi deficit cognitivi e sulla difficoltà a leggere i segnali sociali – ma la sua presenza ridotta nella parte del viaggio (in cui stringe amicizia con Nick Andros, personaggio non udente interpretato da Henry Zaga) rende difficile dargli una vera profondità. Nel frattempo, Whoopi Goldberg ha già praticamente interpretato Abagail con il suo ruolo dell’immortale Guinan in Star Trek: The Next Generation. La sua performance qui evita la maggior parte dei cliché sul personaggio, ma nel complesso fa sembrare Abagail molto meno potente di quanto la storia abbia bisogno che sia.

Whoopi Goldberg. Foto: CBS

Anche la decisione di concentrarsi così tanto su Boulder (e, in misura minore, su ciò che Flagg e i suoi seguaci stanno facendo a Las Vegas) non ha senso, in questa struttura fratturata nel tempo. L’obiettivo, a quanto pare, è quello di mostrare la società ricostruita dalle macerie di Captain Trips (*). Ma la storia salta i primi giorni a Boulder, quando le regole venivano riscritte da zero, ed è invece più concentrata sulla pericolosa fissazione di Harold per Frannie, o sui sogni profetici che diversi personaggi fanno su Flagg. (Quello che vediamo di Las Vegas mostra a malapena come funzionano le cose, ma Skarsgård è carismatico e pericoloso in un modo che rende quei passaggi più vivaci di quelli sui suoi avversari buoni in Colorado.)

(*) O così, o la cosa può essere attribuita allo stesso motivo per cui tante stagioni di The Walking Dead (che è stato a sua volta liberamente ispirato a The Stand) si svolgono staticamente: perché è più economico e più facile da filmare rispetto a personaggi che si muovono di continuo da un posto all’altro.

Questa nuova versione di King ha i suoi momenti ispirati, come il fatto che The Stranger di Billy Joel si riveli in qualche modo la canzone perfetta per Flagg, ma la struttura generale della serie continua a risucchiare la vita dalle cose, dai personaggi principali a quelli minori. Lo sfrenato piromane che si fa chiamare Trashcan Man appare in una narrazione parallela in tutto il libro prima di rivelarsi cruciale al culmine dell’azione; qui (interpretato in modo stravagante e perfetto da Ezra Miller) non si fa vedere fino a quando la stagione non è ben oltre la metà. Senza il tessuto connettivo, presentato nell’ordine corretto, poco di ciò che vediamo ha importanza.

Parecchi film e serie tv nel corso degli anni hanno preso in prestito l’iconografia e gli eventi del libro di King, tanto che potrebbe essere difficile per qualsiasi adattamento moderno avere lo stesso impatto di cui una volta godevano il romanzo o la versione ABC. Ma il nuovo The Stand si contorce su sé stesso fino all’irrilevanza, almeno nelle parti messe a disposizione dei critici. Il finale promette qualcosa di nuovo: una coda, a lungo pianificata e qui scritta da King, su ciò che accade all’indomani della conclusione del libro. Sarebbe ironico se una serie che pasticcia tanto una delle migliori aperture di King finisse per correggere un finale che non è mai stato davvero amato.

Da Rolling Stone USA

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