«Hey, it’s Hannah. Hannah Baker. […] Get a snack. Settle in. Because I’m about to tell you the story of my life. More specifically, why my life ended. And if you’re listening to this tape you’re one of the reasons why».
Comincia così la prima delle tredici registrazioni, divise in sette cassette, che il giovane Clay trova nella scatola lasciata proprio davanti alla sua porta di casa. La voce che proviene dalle casse del vecchio mangianastri del padre, ormai reperto elettronico del Mesozoico, è quella di Hannah Baker, sua compagna di classe al liceo di Crestmont, sua collega alla sala cinematografica dove entrambi staccavano biglietti part-time, ma soprattutto suo primo grande amore. Purtroppo per Clay quella che sta per ascoltare non è la compilation di canzoni romantiche che avrebbe sempre voluto ricevere da lei. Perché qualche settimana prima Hannah è morta. Anzi, specifichiamo meglio: Hannah non è morta, si è ammazzata.
13 Reasons Why (Tredici nella versione italiana disponibile da fine marzo su Netflix) è un pugno allo stomaco di quelli bene assestati, che ti fanno boccheggiare per qualche secondo. La storia che racconta, d’altronde, non è mica facile da digerire. Al centro delle vicende, adattate dall’omonimo romanzo di Jay Asher, abbiamo il suicidio di una ragazza nemmeno maggiorenne, Hannah Baker. Ma perché Hannah si è uccisa? Nessuno meglio di lei può rispondere alla domanda. Non c’è, però, nessun gran mistero dietro la sua fine prematura, nessun complotto, nessuna trama macchinosa, solo tanto dolore. Il dolore di adolescenti che, centrifugati nel sistema scolastico, famigliare e sociale, finiscono per diventare carne da macello.
Sarà perché hanno il cuore più esposto, sia alla gioia che alla sofferenza, alla solitudine come alla stupidità. Il triste destino di Hannah, infatti, comincia con uno scherzo stupido e volgare che, per colpa di quel disgustoso meccanismo che è lo slut-shaming e il bullismo in generale, la trasforma agli occhi di tutti nella sgualdrina della scuola, il capro espiatorio su cui ognuno dei tredici protagonisti delle registrazioni si trova a sfogare il proprio disagio e la propria angoscia. Per riprendere possesso di se stessa e ristabilire la verità andata perduta giorno dopo giorno, Hannah indirizza un ultimo messaggio, l’ultimo testamento a quegli amici che, per una ragione o per l’altra, l’hanno tradita o abbandonata. Se grazie alla voce della ragazza possiamo risalire ai perché del gesto, attraverso gli occhi di Clay assistiamo alle ricadute che questa morte ha sui compagni coinvolti, ma anche sugli adulti, i genitori, la scuola.
Badate bene. 13 Reasons Why non è un banale predicozzo sul malessere giovanile. È prima di tutto un’appassionante teen drama, che evita il facile moralismo offrendoci personaggi sfaccettati e onesti, nonostante ricoprino i soliti archetipi del genere che tutti conosciamo benissimo. C’è un’urgenza nel racconto che si percepisce e che coinvolge, che tiene incollati allo schermo maledicendo la vita al di fuori di Netflix e tutto ciò che potrebbe ostacolare il binge-watching più estremo.
Anzi, 13 Reasons Why non è solo un ottimo teen, ma ne è la glorificazione. Rispolvera con sapienza il linguaggio dei grandi film di John Hughes, quelli che negli anni ‘80 hanno imposto definitivamente la figura dei teenager nell’immaginario pop, e ci riesce senza scadere nel citazionismo o nella mera operazione nostalgia (anche se la colonna sonora nostalgica lo è senz’altro). I protagonisti della serie, allora, potrebbero benissimo essere considerati i figli dei quattro ragazzi di The Breakfast Club, diciassettenni di oggi che non hanno imparato nulla dalla lezione dei padri e delle madri. D’altronde quando si inizia a imparare la lezione significa che l’adolescenza è davvero finita.